Un piccolo consiglio per gli imprenditori sociali ancora attivi nella pausa ferragostana: aprite i cassetti e fate pulizia. Non solo per buttare cose inutili, ma per scovare qualcosa di prezioso, ancora utile allo scopo. Ad esempio? Una bella directory di indicatori di impatto sociale che avete elaborato qualche tempo fa infervorati sulla via della rendicontazione sociale. Ricordate? Il vostro bellissimo primo bilancio sociale. Fatto con fatica e con grande amore, pieno di indicatori creativi per dare davvero l’idea di quello che la vostra impresa produce in termini di valore sociale e in regime di sostenibilità economica. Il primo amore, si sa, non si scorda mai, come si sa anche che dopo un po’ di tempo la passione cala, complice magari la standardizzazione imposta da indicatori esterni (modelli di bilancio sociale “certificati” da un qualche ente di ricerca o addirittura modelli propinati per legge come il burocratissimo set di indicatori del bilancio sociale previsto dalla norma sull’impresa sociale). E così, a proposito d’impatto, il vostro stesso bilancio sociale si è sgonfiato: sempre più smilzo e sempre meno condiviso. Distribuito al massimo in occasione dell’assemblea dei soci, al punto dell’OdG “varie ed eventuali”, poco prima di fiondarsi alla cena aziendale.
Non tutto è perduto però. Anzi sarà un autunno caldissimo per le misure di impatto sociale. E’ già all’opera un sottogruppo di esperti europei sull’impresa sociale che brama, soprattutto dall’Italia, buone pratiche di indicatori sociali da trasformare in standard comuni (ci si augura non troppo stringenti). E poi sono in piena enfasi da rendiconto sociale i nuovi players della finanza d’investimento che, appunto, si fa chiamare “d’impatto”. Una buona occasione per aprire un dialogo con questi nuovi e vecchi attori dove l’oggetto del contendere non è solo il costo del denaro e le condizioni di rientro ma, appunto, il modo in cui si valuta l’efficacia sociale nell’utilizzo delle risorse economiche. Anche perché è facile immaginare che in assenza di proposte da parte di coloro che le risorse le chiedono per iniziative di impresa a elevato “impatto sociale”, i finanziatori decidano di fare da sé imponendo i propri di modelli.
Di questa possibile deriva autoreferenziale se ne stanno accorgendo in molti. Il Third Sector Research Centre ha aperto il fuoco di fila pubblicando uno studio dove si evidenzia l’inefficacia di indicatori di impatto che vengono calcolati solo o quasi per “fare felici” gli investitori sociali. E anche l’autorevole Stanford Social Innovation Review – che di tutto può essere accusata tranne che di non sostenere l’ottica dell’investimento sociale – intola il pezzo di apertura del numero di autunno con un eloquente: When can impact investing create real impact? Ma per non fare troppo gli esterofili si può anche leggere il bel saggio di Andrea Bassi su Impresa Sociale dedicato alla misurazione del VAS, il valore aggiunto sociale e le sue implicazioni per la ridefinizione della catena di produzione del valore.
Il momento è buono quindi per rispolverare la cara, vecchia cassetta degli attrezzi costruita con tanta cura. Ben sapendo naturalmente che la partita non si gioca con un “prendere o lasciare”, ma piuttosto richiederà una negoziazione con un più ampio spettro di interlocutori rispetto a quanto succedeva qualche anno fa. Per questo è utile, quasi indispensabile direi, individuare una comune stella polare che faccia da guida a un percorso molto stimolante ma anche complicato. E inevitabilmente la stella è quella degli interessi e delle aspettative dei beneficiari e dei consumatori “finali”. Sono loro, più di tutti, a dare peso all’impatto generato e quindi a calibrare gli indicatori prescelti. Se ce ne fosse bisogno, la riprova è in questo interessante studio condotto dall’agenzia di marketing Nielsen (a proposito di chi sa per davvero tastare il polso della pubblica opinione) sulla diffusione di consumi socialmente e ambientalmente consapevoli. Sono sempre più in crescita a livello globale, pure in un Paese ridotto come il nostro. A proposito di dove va “l’economia reale” e del valore che viene ricercato. Aprite i cassetti quindi! Lo faccio anche io allegando il rapporto Nielsen completo.
Cosa fa VITA?
Da 30 anni VITA è la testata di riferimento dell’innovazione sociale, dell’attivismo civico e del Terzo settore. Siamo un’impresa sociale senza scopo di lucro: raccontiamo storie, promuoviamo campagne, interpelliamo le imprese, la politica e le istituzioni per promuovere i valori dell’interesse generale e del bene comune. Se riusciamo a farlo è grazie a chi decide di sostenerci.