Economia
Impact investing: serve militanza, non traumi
La ceo di SocialFare replica al fondatore di Oltre Impact Luciano Balbo che si era detto deluso di aver creduto alla finanza etica e che per uscire davvero dal dominio assoluto del capitale servirebbe un trauma: «Noi come investitori, startupper, policymakers dobbiamo essere seduti insieme dalla stessa parte del tavolo: siamo un noi mancante che deve divenire un noi militante. Per questo non serve un trauma ma coraggio»
In un'intervista rilasciata all'HuffPost Luciano Balbo, fondatore di Oltre Impact, considerato il padre dell'impact investing in Italia ha affermato di «essere stato un ingenuo a credere nella finanza etica (…) Oggi viene data una ancora maggiore priorità al ritorno finanziario rispetto ad ogni altro criterio di investimento. Il vero problema è la finanziarizzazione del mondo, l’assoluto predominio del capitale sul lavoro (…) C’è bisogno di una grande ridistribuzione della ricchezza. Attenzione, però: pensare di poterla ottenere tassandola è un’illusione! Il capitale troverà sempre modi di sfuggire. Il problema va risolto a monte. Aumentando i salari, ma soprattutto intervenendo sui meccanismi globali della finanziarizzazione che mette il valore delle aziende al di sopra di ogni altro interesse e che coinvolge gli stessi lavoratori nel meccanismo (…) Temo che l’unico modo per uscire da questa situazione sia una crisi sistemica e ancora più profonda; un trauma.». Parole che hanno suscitato la reazione di Laura Orestano, ceo di SocialFare (in foto un momento della Mountain Schol di Social fare).
Parole vere e pensieri forti quelli di Balbo, che certamente esprimono quanto molti pensano e vivono: il predominio della finanza, il lavoro come commodity, la fatica d’impresa, il settore pubblico incartato in strumenti novecenteschi. Niente di nuovo sotto il sole…Il punto per me chiave è: come, nella complessità descritta da Balbo, possiamo generare sense-making value, valore di senso perché davvero rilevante per le persone e la società?
Il concetto dell’impact investing è nato circa 20 anni fa con l’obiettivo di perseguire attraverso nuovi modelli di business scalabili un ritorno finanziario e sociale, superando la dicotomia tra profit e non profit attraverso il finanziamento di soluzioni innovative alle pressanti sfide sociali.
Secondo il Global Impact Investing Network, oggi i numeri mostrano una costante crescita del mercato (circa +20% all’anno), con oltre 1.700 organizzazioni attive e circa 800 miliardi di dollari in gestione. Il tema cruciale è se dietro a questi numeri vi sia veramente un’alternativa economica e di pensiero, ossia la ricerca di soluzioni innovative in grado di produrre un reale cambiamento sostenibile rispetto ai modelli esistenti per affrontare sfide quali la povertà, le disuguaglianze, lo sfruttamento delle risorse, la delegittimazione delle periferie sociali, e potrei continuare…Il vero rischio è che l’impact investing perda le sue caratteristiche fondamentali e diventi semplicemente una ri-focalizzazione del venture capital tradizionale e in certe geografie ciò sta già avvenendo.
Cosa osservo in Italia? Riceviamo come SocialFare e SocialFare Seed più di 400 progetti ogni anno e lo screening è complesso: idee interessanti senza team completi oppure team esperti e idee deboli, scalabilità difficile molto spesso legata a relazioni opportunistiche…Ma tutto questo si può supportare, accompagnare verso una migliore e più strutturata definizione ed evoluzione…Cosa non vedo ancora è chiarezza terminologica e una scrupolosa tassonomia per gli investimenti, tassonomia non rigida ma ancorata appunto al sense-making , consapevole che ogni investimento comporta rischi e che l’approccio culturale oltre che professionale degli investitori deve evolvere man mano che il mercato evolve e le startup divengono più autenticamente “purpose-driven”. La logica non può essere solo quella del ritorno sugli investimenti e tanto meno aggiungere metriche a metriche ma la centralità della sfida nella quale investiamo: quali comportamenti, quali servizi e prodotti nuovi e perché alcuni più di altri possono cambiare lo status quo?
Se guardiamo alle startup investite da alcuni fondi, si può facilmente osservare che sono state finanziate in un approccio “business as usual” con l’aggiunta di qualche metrica dell’investitore che si autodefinisce così “impact”…questi investimenti non risolvono alcuna sfida vera ma si auto-assolvono verniciandosi di “impact” andando comunque a inserirsi nella narrativa del cambiamento e dell’innovazione. Se guardiamo ai ritorni attesi o promessi da alcuni tra i principali fondi impact, essi sono ancora troppo alti e spesso l’investitore diviene colui/colei con il quale raffrontarsi il meno possibile una volta chiuso l’accordo di investimento…
Qual è il ruolo allora della finanza etica e dell’impact investing? In primis è quello di formare nuovi investitori perché possano davvero essere accanto agli imprenditori in modo generativo e non estrattivo; abbiamo bisogno di investitori coraggiosi che siano in grado di assumersi rischi mentre investono in quelle innovazioni non considerate dal pubblico o dal privato tradizionale.
La nostra esperienza come SocialFare Seed continua a confermare che quando si investe con coraggio, mettendo al centro il valore sociale, quando si entra in sintonia con lo startupper, le possibilità di scalabilità e successo aumentano e accadono, producendo evidenze e ritorni importanti.
Dobbiamo rovesciare il paradigma e partire dall’analisi del valore sociale che può generare se ben sostenuto, valore economico importante. Rispondendo a Balbo, dobbiamo essere noi per primi a combattere la finanziarizzazione mettendo al centro il valore delle persone, delle comunità, dei comportamenti, delle interazioni.
Molto è stato fatto ma le metriche e le narrative con cui si affrontano le problematiche dell’investimento impact sono ancora dissonanti. Noi come investitori, startupper, policymakers dobbiamo essere seduti insieme dalla stessa parte del tavolo: siamo un noi mancante che deve divenire un noi militante. Per questo non serve un trauma ma coraggio.
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