Economia

Impact Economy, riflessioni sul campo: due imprenditrici raccontano

di Laura Orestano

Il lancio di questo blog mi ha offerto la piacevole occasione di re-incontrare due imprenditrici italiane che, in momenti diversi, hanno percorso alcuni tratti di strada insieme a SocialFare nell’ambito di FOUNDAMENTA, il nostro programma di accelerazione per startup a impatto sociale: Roberta Ventura e Danila De Stefano, founder rispettivamente di SEP Jordan e Unobravo, sono due donne brillanti, determinate e capaci le cui esperienze imprenditoriali testimoniano appieno come il valore sociale possa generare valore economico, visione su cui si fonda tutto l’operato del nostro Centro per l’Innovazione Sociale.

In questo primo blog-post condividerò passaggi della nostra conversazione, riportandone domande e risposte sull’impatto, per l’impatto, in linea con il desiderio di dedicare questo spazio su Vita al dialogo aperto con chi fa e vive l’Innovazione Sociale ogni giorno.

Mi affianca in questo nuovo viaggio Silvia Bergamo del team SocialFare, che partecipando agli incontri interverrà di tanto in tanto nelle conversazioni e mi aiuterà a tenerne traccia per riportarle il più fedelmente possibile a voi. Buona lettura!


Roberta Ventura, una laurea in Business Administration alla Bocconi, dopo 20 anni di carriera nel mondo degli investimenti bancari e della finanza, nel 2013 fonda SEP Jordan, social enterprise che oggi offre opportunità di lavoro e accesso al mercato a centinaia di artigiane e sarte rifugiate palestinesi e siriane.

L’azienda, oggi Bcorp, ha partecipato nel 2018 al programma di accelerazione FOUNDAMENTA#6 di SocialFare.

Danila De Stefano, psicologa napoletana classe 1992, nel 2016 inizia a lavorare in Gran Bretagna e vive sulla propria pelle le difficoltà che un expat può incontrare nel cercare all’estero un servizio di supporto psicologico accessibile e nella propria lingua. Nasce così l’idea di Unobravo, piattaforma digitale che offre terapia psicologica online e si avvale di un innovativo algoritmo di matching che permette di selezionare lo psicologo più adatto al paziente. La startup ha partecipato nel 2020 al programma di accelerazione FOUNDAMENTA#9 di SocialFare e oggi vanta 650 psicologi in servizio per circa 8mila pazienti. Danila è citata da Forbes Italia fra “Gli under 30 del 2021”.

Laura:
Parlando di impresa sociale oggi, ho la sensazione che ci sia molta partecipazione femminile, ma poca rappresentanza femminile. Cosa ne pensate?

Danila:

Unobravo nasce femminile, anche perché fra gli psicologi – come in tutte le professioni “di aiuto” – c’è grande maggioranza di donne: abbiamo anzi il problema opposto, vale a dire trovare uomini da inserire in team! L’impronta dell’impatto sociale dal nostro punto di osservazione è quindi molto femminile e il fatto che io come founder sia donna fa sì che chi ha a cuore la tematica della gender equality apprezzi particolarmente Unobravo anche per questo.

Roberta:

anche quello che facciamo noi ha un DNA molto femminile: lavoriamo con oltre 500 artiste e ricamatrici rifugiate, tutte donne. Non ci sono state mai domande a livello di gender, è stato molto naturale che fossimo tutte donne dall’inizio: nella comunità in Giordania uomini e donne vivono in ambienti molto separati fin dai 12 anni, ad esempio a scuola. Noi abbiamo però lanciato la sfida di inserire in team 2 uomini, per ricoprire dei ruoli su cui le donne faticavano: c’è stata inizialmente tensione, perché poteva dare scandalo che una donna lavorasse in un ufficio o laboratorio in cui è presente un uomo. Abbiamo quindi affrontato un problema di integrazione, e siamo molto contenti del risultato, perché quanto sembrava impraticabile ha funzionato. Ora, a distanza di 3 anni, Waseem e Mahmoud sono assolutamente integrati e apprezzati sul posto di lavoro.

Laura:
Dalla mia prospettiva in SocialFare, devo dire che vedere female founders fra le startup da accelerare o su cui investire è per noi motivo di maggiore attrattività. Ma torno a proporvi un’altra lettura. Avete parlato del vostro fare, vorrei chiedervi di parlare del vostro essere imprenditrici: qualcosa in particolare, in questi anni, vi ha dato boost o discomfort?

Danila:

siamo molto meno numerose degli uomini imprenditori e questo mi rende orgogliosa e felice di esserlo. Quando leggo di imprese guidate da donne sono felice, l’obiettivo è naturalmente arrivare a fare in modo che non sia più una notizia perché dovrebbe diventare normalità.

Laura:

…e nell’interazione con gli investitori? Hai ricevuto sollecitazioni da investitrici? È stato considerato o esplicitato come valore aggiunto il fatto di avere un team femminile?

Danila:

sì, ma a volte mi sono chiesta se non si trattasse per lo più di stereotipi, ad esempio quando sento dire che “le donne sono più precise”. Oggi ho effettivamente la percezione che si vogliano valorizzare le imprese al femminile e sento commenti positivi in questo mondo di uomini, ma mi chiedo spesso “lo dicono perché è di moda o perché pensano davvero sia un valore aggiunto?”.

Però c’è da dire che in Italia, fra gli investitori, il topic della presenza femminile è sempre citato in chiave positiva. Ho invece notato una tendenza a mio avviso negativa sui media: è capitato che esplicitassero che avevano preferito invitare Unobravo perché gli era stato chiesto espressamente di dare spazio a imprenditrici e ad attività gestite da donne. Lo capisco, ma mi dico ogni volta “non vedo l’ora che questa cosa non debba essere più notata”.

Roberta:

personalmente non ho sentito né pressing né boost, sinceramente preferisco così, spero che nel tempo questo aspetto diventi, per così dire, “neutro”.

Laura:
Passiamo a parlare di Impact Economy: come interpretate questo “nuovo mondo”?
Quanto ci credete, quanto pensate che possa essere davvero un nuovo modello di sviluppo economico?

Roberta:

io ci credo tantissimo. Vengo da 20 anni nel mondo della finanza a Londra e a Ginevra: allora l’impatto non era considerato un elemento per decidere se investire o meno in un’azienda. Io ero una delle poche investitrici che facevano domande a sfondo impact. Quando nel 2013 ho chiamato la mia azienda SEP, Social Enterprise Project – senza sapere che esistesse questo tipo di attività – è perché davvero volevo dare questo obiettivo ed elemento caratterizzante. Poi mi sono accorta che il concetto di Social Enterprise già esisteva, anche se nel mondo degli investimenti non era conosciuto, anzi: le domande di questo tipo erano ritenute scomode dalle aziende a cui le ponevamo.

È chiaro che oggi anche le aziende quotate nei loro roadshow mettono in evidenza elementi di sostenibilità (sociale o ambientale): è diventato un must. Va detto che ci sono anche i casi di aziende che si liberano dei manager che le hanno fatte diventare B Corp, ma nella maggioranza vedo sempre più imprenditori che danno peso a questo aspetto.

Voi di SocialFare guardate proprio ad aziende che nascono per fare impatto, che ce l’hanno nel DNA, anche se credo che negli anni a venire anche le grandi aziende dovranno imparare ad integrare l’impatto nel “regular business”.

Laura:

Ecco: quanto è difficile “ri-configurarsi/ri-conoscersi” per chi ha una legacy di altro tipo?

Ricordo quando il CEO di una grande agenzia pubblicitaria in un World Forum mostrò 2 versioni di modello di sviluppo di una campagna adv, uno impact e uno no, e nel 1° caso quasi non si parlava del prodotto: l’impact stesso era il prodotto. Spiegò che nella sua agenzia aveva creato un ramo dedicato a questo, con persone con competenze specifiche e diverse dal mainstream allora in essere…

Roberta:

ci vogliono anni infatti!

Danila:

io sono alla primissima esperienza imprenditoriale, ma ricordo che 10 anni fa – io ero un’adolescente – non se ne parlava proprio, l’approccio era consumistico… oggi c’è sensibilità su questi temi, su quello che fino a ieri acquistavamo senza farci domande. Se cominciamo a farci più domande rispetto a cosa c’è dietro ai prodotti allora la rivoluzione parte dal basso.

In più, quando c’è una motivazione sociale in quello che facciamo (come per noi abbattere stigma sui temi legati alla salute mentale) si è più spronati e si lavora meglio e felici di quello che si sta facendo

Laura:

io vedo una centrale di “energia rinnovabile” nel lavorare con questo approccio, energia che nasce dalla motivazione e non solo dalle competenze, un valore che è un asset!

Silvia:

in SocialFare diciamo che “il valore sociale genera valore economico”: cosa ne pensate e come vivete questo binomio? Davvero l’uno genera l’altro, o si tratta piuttosto di un trade-off?

Danila:

per noi l’obiettivo di scalare, in quanto startup, quindi di aumentare di molto i volumi mantenendo alta l’attenzione sull’impatto sociale e quindi il valore generato per la persona (il beneficiario), è la sfida più grande. Si fanno scelte economiche e di business perché vogliamo crescere, ma la scelta di mantenere alti la qualità e l’impatto malgrado la crescita è più una sfida che non un vincolo.

In generale, quando l’obiettivo impact è insito nella natura dell’impresa fin dalla sua nascita, fare impatto sociale è parte stessa del business. Penso sia più difficile per un’azienda “tradizionale” che vuole convertirsi.

Roberta:

confermo di non avere mai avuto conflitti di interesse fra valore sociale ed economico nelle nostre scelte: tutte le nostre decisioni sono orientate all’impatto sociale, fidandoci che l’impatto economico arriverà di conseguenza.

Laura:

infatti noi vi apprezziamo proprio per questo vostro essere impact radicals: è lì che ci si pone in modo diretto di fronte a sfide e criticità che questa radicalità comporta. Si tratta di fare uno statement chiaro!

Roberta:

ora ho io una domanda per Laura! Sono curiosa di sapere come si è evoluto il mondo dell’impact investing in questi anni, dopo nostra accelerazione (nel 2018, ndr).

Laura:

Qualcosa è cambiato e sta cambiando velocemente. C’è sicuramente nuova attenzione su questo tema, si stanno creando fondi di investimento impact, c’è attenzione all’impact economy and finance anche da parte del settore pubblico, ma gli aspetti più interessanti si riassumono in due punti.

Da un lato, gli investitori tradizionali sono sempre più partecipi, curiosi, pronti a investire a impatto. C’è sforzo di interpretazione del significato del concetto di impatto, che diventa attrattivo anche per loro. Dall’altro lato, c’è accelerazione di conoscenze ed expertise da parte degli startupper, che nella loro interazione con gli investitori li aiutano a definire cosa sia davvero l’impatto, su cosa loro stessi si attendono dagli impact investor.

Le due parti, interagendo, negoziano il significato di impact, e c’è da sottolineare che gli startupper non sono affatto ingenui, corrono anzi anche più velocemente degli investitori e questo mi rende molto ottimista: si sta strutturando una domanda qualificata.

Danila:

Laura, quale la tua visione dell’impact investing fra 10 anni?

Laura:

tutto deve essere impact: dobbiamo andare verso questa visione!

È una finanza radicale e world-making, non va interpretata come qsa di esclusivo. La finanza deve servire per creare un mondo più equo e sostenibile, che è l’unico mondo possibile. I soldi servono e sono fondamentali, ma devono essere coraggiosi e serve tanta accelerazione di cultura oltre che una forte presa di posizione politica, che ancora non vedo così radicale nello statement come penso sia necessario.

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