Non profit
Immmigrati, salvezza dell’Italia
Gianpaolo Salvini, gesuita, direttore di Civiltà Cattolica, affronta sull'ultimo numero della rivista la questione migratoria in Italia. Ecco la parte finale del suo intervento
di Redazione

di padre Gianpaolo Salvini S.I
L’immigrazione
L’immigrazione può essere vista anzitutto come un fattore che attenua il progressivo invecchiamento della popolazione, sia perché gli immigrati in genere sono più giovani, sia perché sono più fertili degli italiani. Ma le previsioni sono al solito incerte, anche perché gli immigrati di seconda generazione tendono a comportarsi come gli abitanti del Paese che li ospita e quindi ad avere meno figli. Attualmente entrano in Italia tra 350.000 e 400.000 stranieri all’anno, cifre che nessuna statistica aveva previsto neppure cinque o sei anni fa.
Ma, secondo i calcoli dell’Istat, l’afflusso attualmente previsto di stranieri non è sufficiente a compensare il declino della quota di popolazione in età di lavoro, dovuto sia al calo delle nascite sia all’aumento della longevità. «Per stabilizzare il rapporto tra la popolazione con 65 anni e più e quella 14-64 anni nel 2050 attorno al 30%, un valore in linea con i livelli correnti, sarebbe necessario un flusso medio annuo di ingressi superiore al milione di persone». Naturalmente questi calcoli fatti con grande accuratezza, ma a tavolino, non tengono conto di altri dati di fatto, come, ad esempio, della presenza massiccia di irregolari o clandestini, che sinora nessun Governo è riuscito a controllare efficacemente, ma che ci sono e creano ricchezza, oltre che una serie di problemi, cominciando da quelli statistici. Anche l’Istat, come gli altri istituti centrali di statistica europei, calcola, ad esempio, nel Pil l’economia sommersa (in Italia il 20%), ma non «calcola» coloro che la producono, come i lavoratori irregolari, che non vengono inclusi nella popolazione, né quindi neppure nel calcolo del Pil pro capite.
L’Italia, che è rapidamente diventata un Paese di destinazione dei migranti, per adesso registra una presenza di stranieri minore di quella degli altri Paesi europei. Secondo i dati dell’Eurostat, nel 2005 la quota di residenti con più di 16 anni nati in un Paese diverso da quello di residenza era del 14% in Germania, del 12% in Francia, dell’11% nel Regno Unito e del 6% in Italia. L’Italia però riesce ad attirare e ad utilizzare meno forza lavoro di stranieri (ma anche di italiani!) con livelli superiori di istruzione. Nel 2005 soltanto un decimo degli stranieri con almeno 25 anni residenti in Italia aveva un titolo di studio universitario, contro una media europea del 30%. In Germania e nel Regno Unito la quota sale a circa il 40% degli immigrati. In quest’ultimo Paese la quota è addirittura superiore a quella di laureati tra i residenti nati nel Paese. Per i più istruiti quindi il nostro Paese è meno attraente. Per gli altri, nonostante le apprensioni di molti italiani, gli studi tendono a dimostrare che la relazione tra il tasso di disoccupazione dei cittadini italiani e la quota di residenti stranieri è sostanzialmente negativa. Gli stranieri presenti cioè non fanno aumentare la disoccupazione italiana, e la manodopera straniera tende ad essere piuttosto complementare di quella italiana che non sostitutiva. Anche per l’Italia le analisi confermano i risultati disponibili per altri Paesi europei: «Una maggiore presenza straniera tenderebbe complessivamente a sostenere l’occupazione dei cittadini residenti». Quando aumenta, ad esempio, la presenza della manodopera straniera, cresce considerevolmente anche l’occupazione femminile, evidentemente perché le italiane possono lasciare alle straniere il lavoro domestico o la cura per gli anziani, rendendosi disponibili per il lavoro esterno.
Se ora si considerano non solo i lavoratori stranieri che arrivano in Italia già formati, ma anche quelli che si formano o si formeranno nel nostro Paese, il problema si sposta sulla capacità formativa del nostro sistema di istruzione. Secondo il Ministero della Pubblica Istruzione, gli alunni con cittadinanza non italiana sono passati tra l’anno scolastico 1997-98 e quello 2006-07 da 70.000 a oltre 500.000, e costituiscono ora circa il 6% della popolazione scolastica italiana. Gli alunni stranieri promossi sono però meno di quelli italiani, con un divario che nella scuola superiore giunge al 14%. I ragazzi con almeno un genitore straniero che abbandonano la scuola in Italia tra i 15 e i 17 anni sono circa il 12%, mentre i figli di italiani della stessa età che abbandonano sono il 6,9%, cioè circa la metà. Le ricerche poi mostrano che anche quelli che rimangono a scuola acquisiscono un livello sensibilmente inferiore di conoscenze rispetto ai figli di italiani.
Se quindi la qualità e la quantità di «materiale» umano immigrato di cui il nostro Paese è dotato sono basse, il rischio è che le seconde generazioni di lavoratori di origine straniera occupati in Italia acquisiscano un livello di formazione minore di quello necessario per sostituire gli italiani che mancheranno, abbassando il livello generale.
Si tratta di dinamiche delicate, ma reali, non facili da affrontare, e che pongono gravi problemi non soltanto dal lato demografico, ma anche da quello culturale, religioso ed economico, poiché un declino demografico consistente farà sì che l’Unione Europea, già definita un gigante economico e un nano politico, perderà anche i suoi primati economici riducendosi, secondo i più pessimisti, a un museo, visto che il turismo è già uno dei settori più floridi dell’Europa.
Basta pensare alla Germania, il Paese più popoloso dell’Europa dopo la sua riunificazione (1990), dove nel 2007 si è toccato il livello più basso di nascite dal 1945: 680.000, cioè meno delle 700.000 registrate nell’ultimo anno della seconda guerra mondiale, quando quasi tutti gli uomini erano impegnati al fronte e il futuro era drammaticamente incerto.
Qualche conclusione
In base agli elementi indicati sarebbe bene impostare una politica più organica che affronti più razionalmente la realtà attuale, senza parlare subito di «inverno demografico» o di declino inarrestabile. I settori più suscettibili di intervento ci pare siano soprattutto due: quello di sostegno alla famiglia e ai genitori che desiderano avere più figli, assicurando loro reali assegni familiari (analogamente a quanto già si è fatto all’estero con notevoli risultati, basti pensare alla Svezia e alla Francia) e servizi per le madri con bambini piccoli (nidi d’infanzia, scuole materne, servizi di assistenza ecc.) in modo che l’avere più o meno figli sia effettivamente una scelta libera e non dettata dalla necessità.
In secondo luogo occorre affrontare il fenomeno dell’emigrazione in modo strutturale e non soltanto come un’emergenza. È ovvio che si tratta di un fenomeno da gestire, ma ispirandosi a quanto da decenni fanno i Paesi tradizionalmente meta di immigrazione. Occorre quindi compiere sforzi di reale integrazione specialmente in materia di istruzione. In Italia, come si è detto, il rendimento degli stranieri a scuola è nettamente inferiore a quello degli alunni italiani, mentre in Paesi come Canada e Australia il rendimento più alto a scuola è proprio quello dei figli degli immigrati. Noi speriamo ancora che, passata l’emergenza, gli immigrati torneranno a casa loro, come hanno fatto i croati quando è finita la guerra nel loro Paese. Invece: «Se dimostriamo di puntare a formare “nuovi italiani”, diventeremo automaticamente attraenti per un certo tipo di immigrazione qualificata e potremo permetterci anche di selezionare all’ingresso». Puntando su questi due elementi — aumento della natalità e apertura all’immigrazione —, la Gran Bretagna si avvia a diventare il Paese più popoloso d’Europa, superando la Francia e poi anche la Germania. Sia l’invecchiamento della popolazione, sia la maggiore presenza di stranieri potrebbero stimolare i comportamenti individuali e condurre a scelte con effetti positivi sull’intero Paese. L’aumento della speranza di vita può stimolare l’accumulazione del capitale umano, così come la presenza straniera può favorire la partecipazione femminile al mercato del lavoro. Occorre però una maggiore fiducia nel futuro e una maggiore apertura alla vita se si vogliono aumentare i tassi di natalità: le ragioni degli economisti o dei demografi non sono mai quelle dei genitori quando decidono di avere un altro figlio.
Dal punto di vista economico è necessario sfruttare i margini ancora inutilizzati della forza lavoro, in particolare femminile, e quelli che si renderanno disponibili per effetto dell’allungamento della vita media e del miglioramento delle condizioni di salute nell’età avanzata. L’età di pensionamento fissata per legge andrà certamente spostata, o almeno resa molto più elastica, con adeguati incentivi perché non ci si ritiri troppo presto. Ma l’Italia deve recuperare anche la qualità dei fattori della produzione e la capacità di ampliarne in modo duraturo l’efficienza complessiva. Punti sui quali il nostro Paese è in ritardo rispetto alle altre nazioni industrializzate. La produttività ristagna e questo viene attribuito ai troppi vincoli esistenti per il corretto funzionamento dei mercati, che ostacolano la riallocazione delle risorse produttive verso impieghi più redditizi. Ci sono ampi margini di miglioramento possibile nel settore del capitale umano, migliorando, come si è detto, il sistema di istruzione: nel 2006 la quota di popolazione in età da lavoro con un titolo di istruzione universitario era del 13%, cioè la metà della media dei Paesi industrializzati; tra i più giovani la quota sale al 17%, contro il 33% medio dei Paesi sviluppati. Si possono introdurre migliori meccanismi per valorizzare il merito e premiare i risultati individuali.
Purtroppo le politiche demografiche hanno effetto soltanto a lungo termine e l’Italia, preoccupata delle emergenze immediate, non si è mai dimostrata molto capace di pianificare il proprio futuro. Speriamo che questa volta l’amore per la famiglia e per il proprio Paese aiutino gli italiani a provvedere per tempo.
Il Papa ha parlato innumerevoli volte della famiglia e delle sue problematiche, compresa quella dell’evoluzione demografica. A lui hanno fatto eco moltissimi vescovi e intere conferenze episcopali, i cui appelli spesso sono oggetto di scarsa attenzione perché ritenuti «ovvi».
Benedetto XVI ha parlato del problema demografico anche nel recente Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace (1° gennaio 2009), sottolineando che le nuove potenze economiche hanno conosciuto un rapido sviluppo proprio grazie all’elevato numero dei loro abitanti, e che «tra le nazioni maggiormente sviluppate quelle con gli indici di natalità maggiori godono di migliori potenzialità di sviluppo». La popolazione è una ricchezza e non un fattore di povertà, tanto più che la lotta contro la povertà produce come effetto anche un maggiore equilibrio demografico, rallentando la crescita disordinata e troppo rapida che alcuni Paesi avevano conosciuto nei decenni passati. In Europa il problema è soprattutto quello di assicurare il ricambio generazionale, garantendo un maggiore equilibrio tra nascite e morti, un equilibrio non facile da ristabilire, come si è detto.
I dati da noi presentati ci ricordano che la situazione è inedita e va affrontata adeguatamente. La maggior ricchezza di un Paese è certamente quello che gli economisti chiamano il suo «capitale umano», al quale non si può pensare prescindendo dalla famiglia. Quest’ultima, pur con tutti i suoi problemi e le sue debolezze, rimane un aspetto fondamentale e più intimo dell’essere umano, la cui avventura, senza di essa, perderebbe una dimensione essenziale. La Chiesa, da sempre, ne ha fatto oggetto di particolarissima attenzione, e non si stanca neppure oggi di ricordare che la sua difesa coincide con la difesa dell’intera società e del suo futuro.
Nessuno ti regala niente, noi sì
Hai letto questo articolo liberamente, senza essere bloccato dopo le prime righe. Ti è piaciuto? L’hai trovato interessante e utile? Gli articoli online di VITA sono in larga parte accessibili gratuitamente. Ci teniamo sia così per sempre, perché l’informazione è un diritto di tutti. E possiamo farlo grazie al supporto di chi si abbona.