Volontariato

Immigrazione: saltare il muro

Superare le politiche dell’emergenza. Tutti d’accordo, o quasi. Ma con quali strumenti?

di Sara De Carli

Bastano i numeri per capire che le politiche dell?emergenza sono roba vecchia. Per 15mila clandestini sbarcati in un anno, ci sono 520mila domande di regolarizzazione presentate. E 3 milioni di immigrati regolari. Tra dieci anni saranno 6 milioni. Eppure. La spesa per il contenimento dei flussi è quattro volte quella per l?integrazione. E delle 170mila domande accolte a marzo, nemmeno una è stata autorizzata. È vero però che questa è la prima estate in cui oltre che di carrette del mare si parla di cittadinanza. Il new deal delle politiche migratorie si chiama governance dell?integrazione. Per dirla con Aldo Bonomi, «costruire la società dell?integrazione». Diritto di voto, cittadinanza, nuova legge sull?immigrazione, e non solo. Regolarizzare i lavoratori ma superare l?identificazione tra immigrato e lavoratore su cui si è basato finora il modello italiano di integrazione. Ha funzionato, ma solo dentro le fabbriche. E ora che gli stranieri in Italia mettono radici, fanno famiglia, comprano casa, cede. Bonomi propone di rimettere in piedi la Conferenza nazionale sull?immigrazione, quella che nel 1990 ha accompagnato la legge Martelli, la nostra prima legge in materia. Lui dirigeva il gruppo di lavoro che ha girato l?Italia per fotografare il passaggio del Belpaese da terra di emigrazione a terra di immigrazione. Dopo un anno di lavori, la conferenza nazionale: fine atto primo, cala il sipario. Oggi, dice, «non possiamo più permetterci di tirar fuori il discorso solo per le emergenze. Serve una riflessione collettiva del sistema-paese, tavoli territoriali molto articolati a cui chiamare politici, amministratori locali, urbanisti, sociologi, volontari. E soprattutto gli immigrati». Giriamo l?idea di Bonomi ai piani alti della società civile. Ci stanno tutti. «A patto che la conferenza non sia una passerella autocelebrativa, ma l?avvio della via italiana all?integrazione. Altrimenti meglio una Commissione governativa, come quella presieduta nel 1998 da Giovanna Zincone», precisa Aly Baba Faye, responsabile Immigrazione per i Ds. Tutti si accodano. «Oggi è imprescindibile un raccordo con le politiche europee e con i paesi nordafricani». Le condizioni sono chiare: tavoli territoriali, partecipazione, concretezza. Obiettivo integrazione, cosa più complessa della cittadinanza. Senza la pretesa di nascere già perfetti. La cosa più semplice forse è ripartire dalle consulte regionali dell?immigrazione. Fondamentale il territorio, «perché a livello nazionale si danno risposte standard, mentre l?immigrazione è diversa in ogni regione», osserva Andrea Olivero, presidente delle Acli. E «passare dall?individuo alla famiglia: cambiano prospettive e strategie», convergendo su questo con Paolo Beni, presidente di Arci. Padre Beniamino Rossi, responsabile del Meeting internazionale sulle migrazioni di Loreto, va giù duro: «Ci hanno detto che abbiamo bisogno degli immigrati come forza lavoro, ma il 50% degli immigrati oggi non lavora, sono donne e bambini. La questione è la coesione sociale. Una società che non progetta l?integrazione è una società che non progetta il proprio futuro». Pietro Soldini, responsabile Ufficio immigrazione Cgil, non cede sulla centralità dei diritti dei lavoratori, ma ammette che bisogna fare di più: «La gente viene in Italia per lavorare, non per fare società. Però, poi, in una società sta». Per Liliana Ocmin Alvarez, di Anolf-Cisl, «occorre riconoscere la valenza sociale degli immigrati. Il 12% è laureato e il 27% diplomato, ma la Bossi-Fini costringe a lavori non qualificati, non lascia il tempo per ottenere l?equiparazione del titolo di studio». Giovanni Valenti, dirigente dei servizi per l?integrazione e la cittadinanza di Brescia, nel 1990 c?era. Rimettere in piedi la stessa conferenza di allora però non serve: troppo diverse le cose. «La conferenza oggi dovrebbe ricomporre il nesso fra enti locali, terzo settore, economia territoriale, istituzioni e governo», osserva Valenti. «Bisogna coinvolgere tutti gli enti locali, non solo i più sensibili, e obbligare quelli con più del 10% di immigrati a istituire servizi ad hoc per fare società».


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