A Milano nel 1980 gli stranieri erano uno ogni cento; oggi, nel 2010, cioè 30 anni dopo, gli stranieri sono 20 ogni cento abitanti. In questo intervallo tutto sommato breve di storia, è accaduta una rivoluzione umana di dimensioni inimmaginabili. Sempre per stare ai numeri di questa “rivoluzione”, pensate che nell’anno scolastico 2007-08 (ultimi dati disponibili dal Miur) nel Nord-Est gli alunni stranieri iscritti al primo anno dei professionali raggiungevano il 21,6%. Quanto alle scuole interessate dal provvedimento della Gelmini che pone un tetto del 30% di alunni stranieri in una classe, percentualmente sono ancora poche, ma in numeri assoluti sono 542: un numero che fa una certa impressione. Per venire a un fronte caldissimo come quello di Rosarno, Jean-Léonard Touadi nell’articolo scritto per Vita su questo numero, ci ricorda che si tratta della cittadina italiana al terzo posto per densità di stranieri: ben 5mila (tra cui anche molti cinesi) su 16mila abitanti.
L’Italia ha subìto una trasformazione profonda, che come ogni trasformazione ha portato con sé fratture, contraddizioni, attriti sociali. Ma davanti a situazioni come queste l’errore più grave è quello di cercare risposte fondamentaliste, di qualsiasi tenore siano. La crescita della popolazione straniera in Italia non è stata dettata da un’apertura generosa, ma da una necessità: un Paese in piena denatalità non aveva molte altre alternative. Nonostante gli imbarazzanti pasticci della politica, il processo di integrazione è andato avanti in modo a volte sorprendente: pensate a quale ruolo riveste oggi la scuola pubblica, come laboratorio di intercultura non teorica ma praticata giorno per giorno. Tante classi oggi sono uno spaccato di mondo, con tutte le difficoltà e la fatica che è facile immaginare, ma anche con tutta la ricchezza di differenze e di umanità che porta con sé. È stupenda la testimonianza, raccolta da Sara De Carli nelle prossime pagine, di Roberto Lonoce, docente di musica e chitarra in una scuola media di Milano. È lui il professore di Eduard, e di altri due ragazzini rom, straordinari violinisti. Dice: «Li senti e ti domandi “ma come fanno?”». E poi ancora: «Eduard sta innalzando il livello di qualità di tutta la classe di violino, perché gli altri ragazzi sentono come suona lui e cercano di imitarlo». Problemi di integrazione? «Nessuno».
Naturalmente l’integrazione non è una favola. È un processo che conosce accelerazioni o anche fratture drammatiche. Ma è proprio in questi momenti che la visione di prospettiva serve a non perdere di vista la direzione di marcia. E aiuta a metter a punto quelle correzioni di rotta necessarie. L’indicazione della Gelmini di porre un tetto del 30% agli alunni stranieri va in questa direzione. L’eventuale creazione di classi ponte (che, come dice la parola, sono temporanee) deve essere vista come un’agevolazione all’integrazione non come una ghettizzazione. L’idea di una sorta di etichetta etica sui prodotti agricoli che certifichi il non sfruttamento dei clandestini è una buona idea che dovrebbe essere sostenuta in primis dalle organizzazioni agricole. In Italia lavorano 90mila stranieri regolari nei campi: giusto che il lavoro loro e di chi ne rispetta i diritti venga riconosciuto da tutti.
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