Formazione

Imbarazzismi da ridere

«Più che il razzismo qui in Italia ho conosciuto situazioni buffe, di imbarazzo, legate al colore della pelle, al diverso linguaggio, per questo li ho definiti "imbarazzismi"».

di Emanuela Citterio

«Difficilmente oggi si sente qualcuno scoppiare in una fragorosa risata. Più spesso, specialmente in pubblico, le persone sorridono o si limitano a un riso contenuto. Ridere è qualcosa di viscerale, e in un certo senso presuppone l’aprire un varco, attraverso il quale l’altro può accedere all’intimità della propria persona».
Kossi Komla-Ebri è una persona sicuramente fuori dal comune. Di origine togolese, vive in Italia da 26 anni, è medico chirurgo, mediatore interculturale nelle scuole, vicepresidente dell’Istituto panafricano di Lugano, fondatore di un’associazione che aiuta gli immigrati a Erba e di una lista civica nella stessa città. E soprattutto scrittore di racconti e romanzi. Nel libro “La lingua strappata”, scritto insieme ad altri cinque immigrati in Italia, l’ironia e le risate raccolte nel suo itinerario di immigrato.
«Un giorno andavo a scuola di specialità su un treno delle ferrovie Nord – racconta Kossi -. Ero impegnato a leggere un libro quando un signore si è seduto di fronte a me. Dopo avermi osservato per un po’, ha cominciato ad attaccare discorso con tono interrogativo: “Hello! America?”. Non avevo proprio voglia di rispondere alla serie di domande “Da dove vieni? Cosa fai? A che religione appartieni?”. Ho continuato imperterrito a leggere il mio libro. Dopo un po’ il mio interlocutore ha insistito: “Africa?”. Ho risposto di sì con la testa, senza riuscire a scoraggiarlo. “Da che Paese Africa venire?”. “Io sono del Togo”, ho risposto. In genere quando dico Togo c’è chi pensa subito ai famosi biscotti oppure chi si limita a un incerto “Ahh!”di assenso e poi non dice più nulla. Il signore in questione, invece, dopo alcuni istanti di riflessione, ha concluso: “Ah Togo! Forse nel tuo dialetto dire Togo, ma noi in italiano dire Congo!”. In quel momento avrei voluto ringraziarlo per la lezione di geografia!». Questo è solo uno dei tantissimi episodi divertenti raccolti nel libro.
«Li ho chiamati “imbarazzismi” – spiega Kossi -. Sono episodi reali, successi a me o a gente che conosco, che possono sembrare di razzismo, ma che in fondo sono solo situazioni di imbarazzo, legate al colore della pelle. Sono situazioni buffissime, che accadono sia agli italiani che agli stranieri, e che proprio per questo possono aiutare a sdrammatizzare». Sposato con un’italiana, e padre di due figli, Kossi trova anche il tempo di andare a parlare nelle scuole per educare al dialogo fra le diverse culture.
«Tramite la conoscenza reciproca – sostiene – si abbattono i tabù, le barriere, le paure. Sono convinto che noi immigrati dobbiamo essere soggetti attivi all’interno della società. Se gli italiani devono accogliere lo straniero, è anche vero che gli stranieri devono fare di tutto per farsi conoscere. La gente spesso ha paura solo di ciò che non conosce. Insieme, italiani e stranieri, abbiamo fondato a Erba l’Associazione solidarietà africana e abbiamo cominciato ad andare nelle scuole per far conoscere la cultura africana e stimolare nei ragazzi la riflessione sui rapporti Nord-Sud del mondo. Spesso portiamo nelle classi i giocattoli fabbricati dai bambini africani e invitiamo i bambini a crearne di propri. Ben presto si rendono conto che costruire dei giocattoli non è semplice e in loro cresce la stima per i loro coetanei africani. A noi questo sembra importantissimo. Gli abitanti del sud del mondo vengono spesso presentati come quelli da aiutare, o da commiserare per la povertà e le guerre. Partire dal riconoscimento della dignità e del valore dell’altro è invece il primo passo per un dialogo vero».
Nei suoi racconti, Kossi sottolinea il valore dell’ascolto e della parola, che da sempre rappresentano il cuore della cultura africana. «Il dialogo fra le culture – dice – inizia dall’incontro quotidiano fra le persone. Oggi, quando si è su un tram, sull’ascensore, o in un supermercato, si evita il più possibile lo scambio con un’altra persona. Qui in occidente, a differenza dell’Africa dove è ancora molto presente la dimensione comunitaria, ci si ferma raramente a parlare con qualcuno che non si conosce. La parola implica il rischio che l’altro mi possa invadere, allora devo chiudermi il più possibile in un cerchio che non dà agli altri la possibilità di arrivare al centro della mia persona. In questo modo non c’è più l’osmosi fra le persone, lo scambio reciproco che permette di incontrarsi davvero nel dialogo. Prevale invece un atteggiamento che mantiene le distanze. L’altro deve essere come il televisore, che posso spegnere quando non mi interessa. Forse per questo, con Internet, si sono diffusi così tanto i rapporti virtuali fra le persone. È un modo per comunicare che evita il coinvolgimento diretto con l’altro».
In questi ultimi mesi Kossi è diventato responsabile a Erba di un’altra associazione, Les Cultures, che ha lo scopo di far prendere coscienza della società multiculturale in cui già stiamo vivendo: «Abbiamo programmato un ciclo di incontri sulla spiritualità indiana, un cineforum di film africani, e stiamo preparando una sfilata intitolata “L’altra metà del cielo”, sui costumi femminili dei diversi Paesi del mondo. Il nostro sogno è quello di creare un piccolo centro di documentazione, con una biblioteca multietnica; abbiamo cominciato raccogliendo i libri per bambini e le fiabe di tutti i Paesi del mondo».
Viene spontaneo chiedere se nella società multietnica non ci sia il rischio che le culture stiano le une accanto alle altre come tante verità tutte sullo stesso piano generando confusione e miscele senza più identità. «Nei Paesi di più antica immigrazione si sono sviluppati stili di convivenza diversi – risponde Kossi -. In Inghilterra, per esempio, è prevalso un modello che accosta le diverse concezioni della vita e i diversi valori senza che interagiscano gli uni con gli altri, nella convinzione che alle molteplici identità corrispondano diverse verità. In Francia, invece, tutti devono diventare francesi: ha prevalso un modello di assimilazione delle altre culture. Forse in Italia ci può essere spazio per una terza via, quella dell’incontro e del dialogo. La verità è una, e gli uomini si avvicinano tra loro nella misura in cui la ricercano insieme».

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