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Ilva, si salvino le persone non la fabbrica

Per risolvere l’impasse in cui è finita l’acciaieria si stanno immaginando le più disparate strategie. Dall’intervento di Cassa depositi e prestiti agli aiuti di Stato. Tutte strade però che non si possono praticare. «Continuare a tentare di salvare la fabbrica significa buttare via il denaro che servirebbe a salvare Taranto e a garantire un futuro ai lavoratori», sottolinea Alessandro Marescotti, presidente di PeaceLink

di Lorenzo Maria Alvaro

«Le colpe non stanno in Mittal ma nei governi italiani che, pur di scaricare la patata bollente, hanno delegato a un privato la scelta scomodissima di chiudere l'ILVA, una scelta inevitabile dati i conti in rosso per cinque miliardi di euro, e che era impopolare fare da Roma». Così Alessandro Marescotti, presidente di PeaceLink commenta la scelta della multinazionale franco-indiana di spegnere gli alti forni dell’acciaieria tarantina.

Anche le proposte che arrivano dal Governo lasciano perplessi. «Non si può usare la Cassa Depositi e Prestiti (CDP) per ripianare i debiti e le perdite dell'ILVA perché questo violerebbe lo stesso statuto di CDP. D’altro canto non si può neanche concedere in alcun modo aiuti di Stato perché è vietato dal TFUE (Trattato di Funzionamento dell'Unione Europea). Questo significa che ad oggi la crisi ILVA è senza sbocco. L'unico possibilità sbocco è un cambio di paradigma: aiutare Taranto e i suoi lavoratori, non la fabbrica», spiega Marescotti che puntualizza: «L'unica strada lecita e sensata è la riconversione utilizzando fondi europei. Proseguire una produzione in perdita sarebbe un atto di stupidità unica. Le perdite degli ultimi 12 mesi ammontano ad oltre 70 mila euro a lavoratore. Tanto vale pagarli senza mandarli a lavorare ma formarli ad altri lavori e accompagnarli verso una riconversione o un riutilizzo in altri settori delle loro competenze professionali. Continuare a tentare di salvare l'ILVA – ripianando le sue perdite costanti e insostenibili – significa buttare via il denaro che servirebbe a salvare Taranto e a garantire un futuro agli stessi lavoratori ILVA».


Questa strada, quella del salvataggio di Taranto e dei tarantini piuttosto che della fabbrica, per Marescotti deve essere oggi l’unico obiettivo.

«Uno Stato che ha speso dieci miliardi di euro in missioni militari "di soccorso" in Afghanistan e Irak alle popolazioni in pericolo e che si appresta a comprare F-35 da 130 milioni di euro l'uno, perché non potrebbe una volta tanto andare "in soccorso" della popolazione di Taranto e spendere una minima parte di ciò che ha speso per missioni all'estero? Taranto ha il diritto di essere risarcita dallo Stato e lo Stato ha il dovere di soccorrela. Taranto era la città da sacrificare, da spremere e da gettare assieme alla salute e alla vita dei suoi abitanti. Un'operazione coloniale. La faccia indegna di una storia che adesso emerge nel processo Ambiente Svenduto, ancora in corso», attacca Marescatti, che conclude, «Taranto è un pezzo della questione meridionale e della coscienza ferita di un sud a cui si poteva infliggere ciò che il nord rifiutava».

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