Famiglia

Ilo-Lavoro minorile. 144 i bambini sfruttati in Italia

I dat diffusi oggi da Istat e Eurispes in occasione della giornata contro lo sfruttamento dei minori promossa dall'Ilo

di Ettore Colombo

Sono 144.285 i minori che lavorano in Italia. Di questi, 12.168 hanno tra i 7 e i 10 anni, 66.047 tra gli 11 e i 13 e 69.070 hanno 14 anni. Il 59% lavora con genitori o parenti. Ma i contorni reali del fenomeno sfuggono alle statistiche perche’ lo sfruttamento dei minori e’ molto spesso legato al lavoro clandestino. Diversa anche la divisione territoriale del fenomeno. Prima dei 15 anni ha lavorato il 19,4% dei minori nel Nordest, il 14,1% nel Nordovest, il 13,9% al Sud, il 12,3% nelle Isole e il 9,6% al Centro. Questi i dati dell’Istat diffusi oggi dall’Osservatorio sul lavoro minorile, in occasione della giornata mondiale contro lo sfruttamento dei minori promossa dall’Ilo. Sono tre i tipi di occupazione minorile piu’ diffusi in Italia: lavori occasionali; lavori stagionali e estivi; lavori continuativi. Questi ultimi sono piu’ frequenti nel Nordest per la presenza di numerose imprese familiari, dove molto spesso il minore viene impiegato dagli stessi genitori. Camerieri, commessi nei supermercati, operai nei laboratori di pelletteria del falso, operaie cottimiste nelle fabbriche di camicie, agricoltori e pastori. Sono questi, secondo l’Istat, i lavori svolti dai minori italiani. In particolare, il settore della ristorazione guida la graduatoria delle attivita’ dove e’ piu’ diffuso il lavoro minorile (17,9%). Seguono, i negozi (14,9%), l’agricoltura (14,1%), il lavoro in fabbrica (11,8%), le attivita’ domestiche in casa propria (11,4%), o di parenti e altre persone (9,6%), in laboratori o officine (7,4%). Un 6% di minori, infine, e’ costretto a lavorare sulla strada. Tra i baby lavoratori, il 23,4% ha come capofamiglia un lavoratore autonomo, il 22,1% un imprenditore, il 17,4% un apprendista o un socio di cooperative, il 14,1% un operaio, l’8,8% un impiegato e il 5,9% un dirigente o un libero professionista. Altri dati sono contenuti nello studio condotto da Eurispes e Telefono Azzurro e diffuso a margine della terza giornata mondiale contro il lavoro minorile, parlano chiaro. Secondo l’ultimo Rapporto nazionale sulla condizione dell’infanzia e dell’adolescenza infatti, sono 147.285 i minori di 15 anni che in Italia lavorano, pari al 3,1 per cento dei ragazzi di quella fascia d’età. L’incidenza dei minori lavoratori sulla popolazione minorile complessiva è strettamente correlata all’età: nella classe tra i 7 e i 10 anni è dello 0,5 per cento, ma sale progressivamente fino ad arrivare all’11,6 per cento tra i 14enni. Il 78 per cento dei minori è compreso nel gruppo degli aiuti familiari, svolgendo attività con genitori o fratelli. Nel gruppo dei lavori non continuativi sono compresi il 31,9 per cento degli intervistati. Il lavoro “vero e proprio” ha interessato la quota inferiore di minori (il 17,5 per cento dei ragazzi), con un impegno più gravoso: tutti i giorni (81 per cento), per più di 4 ore al giorno (85 per cento). Eurispes e Telefono azzurro sottolinenano in ogni caso la necessità di fare una distinzione tra i cosiddetti “lavoretti” e i lavori pesanti, che spesso integrano un vero e proprio sfruttamento. Fortunatamente si registrano cifre molto diverse. I minori sfruttati sono 31.500 e costituiscono lo 0,66 per cento della popolazione minorile totale, contro il 3,1 per cento di bambini che lavorano. Anche in questo caso i più a rischio sono i ragazzi più grandi. L’età influenza in maniera simile anche le differenti tipologie di sfruttamento minorile, continuativo e non continuativo, è infatti sempre tra la popolazione giovanile che si registra il dato più critico di coinvolgimento. I maschi costituiscono la quota più numerosa solo nella fascia d’età compresa tra gli 11 e i 13 anni (38,7 per cento), mentre le femmine rappresentano la maggioranza sia tra i più piccoli (8,6 per cento fino a 10 anni) sia tra gli adolescenti (57 per cento tra i 14enni). Le femmine risultano più numerose nelle attività meno impegnative, mentre il rapporto si inverte in quei lavori che coprono anche l’intero anno. Nel 2000 (secondo dati elaborati nel 2002) quasi il 30 per cento dei minori ha lavorato in media dalle due alle quattro ore giornaliere, con una quota maggiore di bambine (33,5 per cento contro il 27,8 per cento dei bambini). Una percentuale simile (28,3 per cento) ha svolto attività che la occupava dalle quattro alle sette ore al giorno e quasi un bambino su quattro ha lavorato per oltre sette ore nell’arco di una giornata (tra questi si rileva una maggiore presenza maschile). I lavori svolti sono, nella maggior parte dei casi, conciliabili con la scuola che non viene comunque trascurata dalla quasi totalità delle bambine (90,2 per cento) e dall’85,9 per cento dei maschi. Allo stesso tempo, però, si registra che un 7,3 per cento ha saltato la scuola in qualche occasione e un 5,3 per cento che lo ha fatto spesso. Il 68,7 per cento dei minori ha lavorato percependo una retribuzione, mentre il restante 31,2 per cento non ha guadagnato niente. La maggior parte dei bambini, comunque, preferisce andare a scuola, piuttosto che lavorare (41,9 per cento). Una percentuale più contenuta è più attratta dal lavoro che dalla scuola (35 per cento) e i maschi hanno espresso questo parere in misura superiore di 9 punti percentuali rispetto alle bambine. I luoghi del lavoro minorile per eccellenza risultano bar, alberghi e ristoranti (17,9 per cento), a seguire altre attività commerciali (14,9 per cento), lavori agricoli (14,1 per cento). Tra i lavori più pesanti si annovera anche un 11,8 per cento di minori che lavora in fabbrica o in cantiere. La distribuzione geografica del lavoro minorile è strettamente collegata a due variabili: il tasso di scolarizzazione e il livello di sviluppo economico. L’indice della distribuzione geografica dei ragazzi che hanno lavorato prima dei 15 anni raggiunge il valore massimo nel Nord-Est (19,4 per cento) e minimo al Centro (96 per cento), con un andamento opposto a quello registrato nella propensione a proseguire gli studi. Nel Nord-Ovest l’indice è del 14,1 per cento, nel Sud del 13,9 per cento, nelle Isole 12,3, contro un indice nazionale del 13,8 per cento. Una variabile determinante è il tipo di attività svolta dal capofamiglia: tra coloro che hanno lavorato prima dei 15 anni risultano più numerosi i figli di lavoratori in proprio (23,4 per cento) o di imprenditori (22,1 per cento), in quanto risulta più frequente che possano essere coinvolti, fin da piccoli, nell’attività paterna, così come accade per i figli degli agricoltori (30,6 per cento) o degli occupati nella ristorazione (24,1 per cento). Il fenomeno degli infortuni sul lavoro – sottolinea infine il Rapporto – interessa anche i minori, ma con risvolti ancora più preoccupanti: i bambini hanno maggiori probabilità di farsi male e il datore di lavoro denuncia l’infortunio esclusivamente nei casi in cui non può farne a meno. Secondo i dati di Eurispes e Telefono Azzurro, nel 2000 gli infortuni denunciati a carico di minorenni risultano 24.776, ma il dato non può tenere conto della cifra oscura, ovvero dei numerosi casi in cui l’incidente viene tenuto nascosto. Le regioni maggiormente interessate dal fenomeno risultano, in ordine decrescente, la Lombardia (4.532), il Veneto (3.347), l’Emilia Romagna (3.175) e il Trentino Alto Adige (2.484). Il numero più consistente di infortuni riguarda i comparti dell’industria, del commercio e dei servizi e conta ben 17.147 casi. Molto frequenti anche gli infortuni per “conto stato” (7.187), ossia gli incidenti che avvengono all’interno delle scuole o durante le attività scolastiche (spesso durante gli intervalli ricreativi, le gite di istruzione), e conteggiati nell’archivio Inail. Il dato più elevato è annoverato in Lombardia (1.092), seguita, con un minimo scarto, dal Piemonte (1.081) e con valori più contenuti dalle altre regioni, mentre in Valle d’Aosta non si è registrato nessun incidente. Dato positivo è la riduzione del numero di casi “ufficiali” nell’arco di tre anni, passati da 10.773 nel 1998 a 7.653 nel 2000. Ma molti bambini (77 nel 2000) riportano conseguenze gravi dall’infortunio, tali da causare l’inabilità permanente o addirittura la morte (15 nel 1998 e 4 nel 2000) .


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