Mondo

Ilaria e il suo Kenya. Un’architetta tra le capanne

Una giovane professionista accetta di costruire una scuola in Africa. E scopre la superficialità del mondo che ha lasciato.

di Aldo Daghetta

Una volta che decidi di fare volontariato non devi avere tentennamenti, chiederti se puoi guadagnarci comunque qualcosa o se sarà solo uno spreco di tempo. Era già un anno che volevo partire, non sono riuscita ad andare in Brasile, ma sono stata in Kenya».
Ilaria Bosi, studentessa all?ultimo anno di architettura al Politecnico di Milano, ha le idee molto chiare: voleva fare un?esperienza estrema di volontariato cui poter contribuire con il proprio know-how e così si è recata a Nkabune, a circa 300 chilometri da Nairobi, presso un orfanotrofio gestito da alcune suore keniote che ricevono aiuti dal Gruppo missionario della Caritas di Cassago. L?obiettivo era quello di ampliare l?unico edificio esistente destinato a scuola ristrutturandolo e aggiungendovi un dormitorio, una mensa e un locale con docce e toilette. «Quando sono venuta a conoscenza della possibilità di partecipare come volontaria a questa missione», continua Ilaria, «il progetto era già stato ultimato da un architetto di Lecco, ma io ho potuto contribuire direttamente seguendo la fase operativa».
Un periodo di lavoro che l?ha vista alternarsi tra mattoni e calce e un altro progetto volto al piano educativo di una parte degli ospiti dell?orfanotrofio, in cui si trovano bambini e ragazzi fino ai 18 anni, che prevede la realizzazione di disegni e opere manuali successivamente scambiate con quelle di bambini italiani. «Il momento più bello ed emozionante», ricorda Ilaria, «arrivava puntuale ogni sera. Dopo l?intera giornata passata a sfacchinare al cantiere, lavorando assieme a italiani e abitanti del luogo che ci aiutavano nei lavori, ci si ritrovava con i bambini. Qui ho potuto affezionarmi a una bellissima bimba di nome Carol che difficilmente dimenticherò».

Costruire per l?uomo
Cercando le motivazioni che portano una ragazza a compiere questa esperienza, emerge una repulsione profonda e radicata per ritmi e modelli della vita milanese. «Milano mi ha stufata», specifica Ilaria. «I rapporti tra le persone sono troppo superficiali: non voglio che la mia vita sia dettata da tempi imposti da altri. In Kenya si vive in una realtà completamente diversa dalla nostra e talvolta è difficile comprenderla riuscendo a intervenire con progetti di sviluppo a lungo termine senza stravolgere l?ambiente sociale e tradizionale del luogo». Una scelta che rispecchia anche un disagio latente per il sistema e la filosofia d?insegnamento che domina ormai le facoltà d?architettura italiane, considerate troppo aride «e del tutto staccate dalla realtà. Al Politecnico di Milano non mi facevano progettare altro che centri commerciali e palazzi dei congressi: non ho mai progettato una casa. Diversamente, in altri Paesi come l?America Latina, ci sono architetti che applicano la cosiddetta architettura informale, basata sullo sviluppo dei materiali locali al fine di progettare e costruire strutture per l?uomo, favorendo un?interazione armonica con la natura».
Quello di Ilaria è il sogno di molti giovani che non vogliono limitarsi a sfruttare comode opportunità di lavoro, ma investono il proprio futuro seguendo gli imperativi della giustizia sociale, preferendo al ?business for business? una scelta di vita diversa: «Quando si torna», conclude, «la sensazione prevalente è sempre quella di non aver fatto abbastanza, di essersi risparmiati e di aver ceduto al facile pietismo. Non voglio passare la mia vita in un arido studio di architettura, penso di crearmi una professione in mezzo alla natura, in mezzo agli uomini e per gli uomini. Questo è il mio sogno».

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