Politica

Il Welfare secondo Giorgia Meloni

Sanità, povertà, famiglia, scuola e anziani: dove vuole andare il nuovo governo? L'analisi del sociologo all'università di Trento: «Il nuovo Governo non ha ancora compiuto alcuna scelta in materia di welfare e, pertanto, qualunque valutazione sarebbe precoce. Quello che adesso si può fare, invece, è cercare di mettere a fuoco le direzioni che l’Esecutivo intende seguire»

di Cristiano Gori

Questo non è il momento di giudicare, è il momento di provare a capire. Il nuovo Governo non ha ancora compiuto alcuna scelta in materia di welfare e, pertanto, qualunque valutazione sarebbe precoce. Quello che adesso si può fare, invece, è cercare di mettere a fuoco le direzioni che l’Esecutivo intende seguire. Anche se, tra programmi e dichiarazioni, i messaggi non sono sempre univoci, alcune linee di fondo paiono emergere. Tenterò di coglierle suddividendole tra le diverse aree del welfare (il titolo di ogni paragrafo è accompagnato da una frase che suona come se l’avesse pronunciata la Premier, ma che evidentemente è una mia elaborazione per sintetizzarlo).

Sanità – “La sanità pubblica non è la mia battaglia”
Ormai da lungo tempo, la tutela della sanità pubblica è uscita dal novero delle priorità: la vicenda del Covid lo ha confermato in modo eclatante. Infatti, neppure l’enorme interesse nei confronti del sistema sanitario conseguente alla pandemia ha indotto a invertire il trend di progressiva riduzione dei finanziamenti dedicati, visto che le maggiori risorse stanziate hanno avuto carattere eccezionale e temporaneo.

I dati sono chiari. La spesa sanitaria è cresciuta costantemente tra il 2000 e il 2010 ma da allora ha iniziato una discesa apparentemente senza fine. Se nel 2010 ammontava al 7% del Pil, le stime del Governo indicano che giunti al 2025 sarà calata sino al 6,1%. L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha individuato nel 6,5% del Pil la soglia minima di spesa per assicurare una sanità pubblica di qualità e accessibile a tutti.

A oggi, sembra che il nuovo Governo non intenda intraprendere quella battaglia a favore della sanità pubblica che nemmeno i suoi predecessori hanno voluto, o saputo, compiere. Né la Premier nel suo discorso programmatico, né i programmi della coalizione di maggioranza hanno indicato l’obiettivo d’invertire la tendenza alla diminuzione della spesa sanitaria. Il tema, in altre parole, non pare esistere, in perfetta continuità con il passato.

La novità, invece, consiste nel particolare impulso previsto per il welfare aziendale, per la prima volta citato in un discorso d’insediamento di un Presidente del Consiglio. Meloni ha affermato che si promuoverà lo sviluppo del welfare aziendale e che – a sottolineare la sua importanza – saranno rafforzati gli incentivi fiscali dedicati.

Ecco, dunque, la sintesi per la sanità: nessun impegno a interrompere il calo della spesa pubblica e una decisa spinta alla crescita del welfare aziendale e delle relative agevolazioni fiscali. Questa strada, se sarà quella effettivamente imboccata, darà vita a quel mix tra minor spesa pubblica e maggiori incentivi fiscali alla spesa privata che rappresenta la via maestra per una progressiva privatizzazione della sanità. Sicuramente, il futuro della sanità pubblica in Italia richiederebbe molta più attenzione: oggi, invece, si oscilla tra il senso di rassegnazione diffuso negli addetti ai lavori e la scarsa conoscenza delle tendenze in atto nell’opinione pubblica. Ad alimentarla hanno contribuito anche campagne comunicative ben congegnate, come quelle dell’ultimo Governo, che hanno trasmesso il messaggio di un crescente investimento pubblico. Ma é vero il contrario.

Povertà – “Qualcuno ha letto il mio programma?”
Il nuovo Esecutivo ha, più volte, illustrato la propria strategia nel contrasto alla povertà: sostituire il Reddito di Cittadinanza con due misure, una rivolta ai poveri che non sono in condizione di lavorare e l’altra destinata a quelli che – invece – lo sono. Si vorrebbe affrontare così un limite intrinseco del Reddito, il sovraccarico di obiettivi: voler essere, contemporaneamente, una politica di contrasto alla povertà e una politica attiva del lavoro. Seguire questa strada – già scelta da 8 Paesi Europei (ad esempio Germania, Spagna e Austria) – potrebbe rivelarsi una buona idea oppure portare a un disastro. Dipenderà da come la si tradurrà in pratica.

La linea dichiarata dal Governo, però, è stata sostanzialmente ignorata mentre a catturare l’attenzione è stato un obiettivo “percepito”, che gli è stato attribuito dall’esterno: quello di “togliere il sostegno ai poveri”. Contro quest’ipotesi sono fioccate dure prese di posizione da parte di numerosi media e di varie voci della società civile e dell’opposizione.

Tuttavia, nei programmi elettorali della destra non è mai stata manifestata l’intenzione di cancellare gli interventi nazionali contro la povertà o di revocarli ad alcune fasce di beneficiari; lo stesso vale per il discorso d’insediamento della Premier. Anche le esternazioni di altre fonti governative sono dello stesso tenore. Pure le dichiarazioni dell’ala più estrema – quella di Salvini– puntano a incrementare le sanzioni a chi non trova lavoro, che è cosa ben diversa.

Tirando le fila: la strategia dichiarata dal Governo è stata ignorata mentre si è criticato duramente l’Esecutivo per qualcosa che non hai mai affermato di voler fare. Perché ciò è accaduto? Tra le molteplici risposte possibili, vorrei concentrarmi sulle reazioni di difesa che vengono messe in atto di fronte a una realtà diversa da quella che si desidera. A me sembra che, nella vicenda della lotta alla povertà, questo tipo di comportamento sia ricorrente. Nel 2019, il centrosinistra votò contro l’introduzione del Reddito di Cittadinanza: una scelta non da poco, che equivalse a esprimere parere contrario al più ampio trasferimento di risorse destinate ai poveri nella storia d’Italia. Le motivazioni addotte furono varie e diverse ma, a mio parere, la ragione fu una sola: la messa in campo di un meccanismo difensivo nei confronti di un atto che poneva fortemente in discussione l’identità e la coerenza del centro-sinistra. Questa coalizione, infatti, in base ai suoi ideali dichiarati avrebbe dovuto compiere una simile scelta già anni prima.

Venendo a oggi, un vasto insieme di soggetti dell’area progressista, sociale, culturale e politica, quando guarda la destra non vede quella che ha effettivamente davanti a sé bensì quella che, nel suo immaginario, ritiene essere (o, forse, vorrebbe che fosse) la destra. Questa parte politica, così come viene “prefigurata”, sarebbe animata dal deliberato obiettivo di ridurre la protezione sociale verso i più deboli; siamo nel mondo della Thatcher e dei film di Ken Loach, per intenderci. Si tratta di nuovo, a mio parere, di un comportamento difensivo davanti a una realtà indesiderata. In presenza di una destra come quella paventata, infatti, nel gioco delle parti il mondo progressista avrebbe la missione di proteggere i più deboli. Questo è il ruolo che – in effetti – vorrebbe ricoprire. La realtà, però, è differente: la destra non ha in animo di togliere aiuti ai più deboli (ha vari limiti, a partire dalla scarsa competenza, ma non questo). Peraltro, bisogna ricordare che il voto delle persone delle classi sociali più basse va in prevalenza a destra anziché a sinistra.


Famiglia – “Mi batto per la famiglia, non per le pari opportunità”
Il sostegno alle famiglie e la promozione della natalità costituiscono temi centrali nel programma e nella narrazione pubblica del centrodestra. Lo conferma l’indicazione di una robusta crescita della spesa pubblica destinata ai nuclei con figli in modo da portarla dal valore attuale (1,4% del Pil) alla media europea (2,3%); nessun impegno a incrementare la spesa, si trova, ad esempio, nella sanità. Il “Ministero per le Pari Opportunità e la Famiglia”, d’altra parte, è stato rinominato “Ministero per la Famiglia, la Natalità e le Pari Opportunità”. I cambiamenti lessicali, con l’inserimento del termine “natalità” e lo spostamento di “famiglia” prima di “pari opportunità”, rispecchiano le priorità sostanziali della nuova coalizione di Governo.

E’ di particolare interesse, quindi, capire quale famiglia abbia in mente l‘Esecutivo: la risposta affonda le radici nella sua cultura di riferimento. La famiglia è considerata la cellula primaria della società, aspetto rivendicato costantemente con orgoglio; la sua sorte prevale su quella dei singoli membri e l’ente pubblico deve supportarla senza interferire nell‘esistenza che conduce. I cardini culturali sono la preminenza del nucleo rispetto ai suoi componenti e la richiesta di un sostegno pubblico privo di ingerenze.

L’esempio limite di tale approccio riguarda la tutela di quei minori che, versando in situazioni di grave rischio, su disposizione dell’Autorità Giudiziaria vengono allontanati dal nucleo di origine e affidati a un’altra famiglia o a una comunità. La destra intende minimizzare l‘applicazione del provvedimento anche in casi di particolare criticità, promuovendo l’approccio “allontanamento zero”, imperniato sui due punti sopraccitati: primo, la famiglia è sovraordinata rispetto alla tutela del minore; secondo, lo stato non deve intromettersi.

Da qui discende in modo lineare anche la concezione del ruolo della donna, considerata perlopiù come madre all’interno della famiglia e non come persona oggettivamente svantaggiata dai carichi di cura; le pari opportunità, conseguentemente, perdono rilievo. Quest‘impostazione determina le proposte del centro-destra rispetto ai diversi strumenti delle politiche per le famiglie con figli, cioè sostegni economici, servizi e congedi. Sostegni economici: piuttosto che sui servizi, l’attenzione è puntata verso gli aiuti monetari, che non mettono in discussione la tradizionale suddivisione dei carichi di cura all’interno del nucleo ma, anzi, la rafforzano. Servizi: i nidi sono presenti, seppur in secondo piano, e vengono visti come un mezzo per consentire alla donna di conciliare gli impegni lavorativi e di cura, di nuovo senza entrare nel merito della distribuzione dei compiti tra i genitori. Congedi: sono potenzialmente la misura più utile a promuovere la redistribuzione dei compiti di cura, soprattutto mediante l’incremento dei congedi di paternità, oggi assai ridotti (10 giorni per i lavoratori dipendenti). Non a caso, in numerosi paesi europei i congedi sono al centro del dibattito ma né nel programma né in alcun intervento pubblico la nuova maggioranza ha espresso l’intenzione di occuparsene.

Scuola – “La falsa uguaglianza dei progressisti ha sfavorito i meno abbienti. Ora si cambia”
La ridenominazione del Ministero dell’Istruzione in “Ministero dell’Istruzione e del Merito” riprende il dettato costituzionale: “i capaci e i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto a raggiungere i gradi più alti degli studi” (art. 34). Il fulcro del ragionamento sottostante, però, prima ancora che al merito è il riferimento ai ragazzi “privi di mezzi”. I motivi sono stati illustrati dalla Premier nel discorso sulla fiducia e si ritrovano nel noto volume “Il danno scolastico”, di Paola Mastrocola e Luca Ricolfi. Il sottotitolo dice già molto: “La scuola progressista come macchina della diseguaglianza”.

Secondo chi sostiene tale posizione, a partire dagli anni ’60 – e ancor più con l’onda lunga del ’68 – si è progressivamente imposta nella scuola italiana una specifica accezione di uguaglianza: per aiutare chi non ce la fa bisogna abbassare il livello complessivo dell’istruzione, in modo da includere tutti. Sarebbe questa l’uguaglianza secondo la scuola progressista (o democratica).

Si tratta, però – così prosegue l’argomentazione – di un’uguaglianza formale che si traduce concretamente in diseguaglianza sostanziale. Cosa accade con un’istruzione pubblica di basso livello? Chi proviene da classi sociali superiori, grazie a tutto ciò che può mettergli a disposizione il proprio contesto sociale e familiare, troverà al di fuori della scuola gli stimoli e le conoscenze che lì non gli vengono offerti (lezioni private, opportunità di varia natura, reti di relazioni e così via) Agli altri, invece, queste possibilità mancheranno. Pertanto, quello che era stato inizialmente concepito come un sistema per tutelare le classi sociali più deboli, finisce per avvantaggiare le più forti: questa è la “macchina della diseguaglianza” di Mastrocola e Ricolfi.

Nelle parole pronunciate da Meloni nel discorso d’insediamento: “chi vive in una famiglia agiata ha una chance in più per recuperare le lacune scolastiche di un sistema appiattito al ribasso, mentre gli studenti dotati di minore risorse vengono danneggiati da un insegnamento che non premia il merito, perché quelle lacune non vengono colmate da nessuno”.

Per fronteggiare la diseguaglianza bisogna, dunque, alzare il livello dell’istruzione pubblica. Parallelamente, si deve recuperare l’autorità degli insegnanti,il cui indebolimento è andato inevitabilmente di pari passo con l’abbassamento della qualità. Infatti, svilire tale autorità è un altro modo di creare diseguaglianza. Come scrive Mastrocola: “un ragazzo di umili origini non potrà andare avanti se noi [docenti] non gli insegniamo alcune cose e poi esigiamo e pretendiamo che lui conosca queste cose”.

Qui, come anticipato, non entro nel merito della validità delle varie posizioni citate (sulla scuola, peraltro, non ne ho le competenze) ma cerco esclusivamente di capirle. In questa prospettiva, noto che l’orientamento illustrato non si conforma alla diffusa opinione che vede nel sottofinanziamento il problema principale della scuola ma punta il dito verso la logica che la governa. Mostra, inoltre , di voler togliere ai progressisti la bandiera di difensori delle classi più deboli, ma non solo: sostiene addirittura che tale bandiera sia stata utilizzata, a conti fatti, per tutelare le più benestanti.

Anziani – “Priorità ai 64enni in buona salute. Gli 88enni con demenza vengono dopo”
La diffusione del dibattito, politico e mediatico, in corso su cosa fare per le pensioni può trarre in inganno. Qui assistiamo, infatti, a un tipico esempio di barriera informativa al confronto pubblico. Circolano innumerevoli ipotesi sul passaggio dall’attuale quota 102 a quota 104, ma forse quota 103 potrebbe essere un ragionevole compromesso, e via discorrendo di termini e numeri incomprensibili ai più. La conseguenza è che colgono le implicazioni della discussione solo coloro che vi hanno un interesse diretto, mentre gli altri (cioè la grandissima parte dell’opinione pubblica) no. Ma, quando in materia di scelte politiche non si capisce bene di cosa si stia parlando, diventa impossibile sia farsi un’idea che esercitare una funzione di controllo.

Semplificando, esistono due criteri per andare in pensione. Uno riguarda i contributi ed è rimasto invariato (chi li ha versati per almeno 42 anni e 10 mesi, uno in meno per le donne, può ritirarsi a qualunque età): qui invece ci riferiamo all’altro, concernente l’età minima. Nel 2019 il Governo Cinque Stelle-Lega introdusse la cosiddetta quota 100, un meccanismo – dichiaratamente temporaneo – che consentiva di andare in pensione prima di quanto previsto dalla vituperata legge Fornero, a 67 anni. Per quest’anno, quota 100 è diventata quota 102, che permette di lasciare il lavoro a 64 anni mentre dal prossimo- se nulla accadrà – si tornerà a 67 anni. Per scongiurarlo il Governo sta mettendo sul tappeto varie opzioni: in qualunque caso per concretizzarle bisognerà spendere alcune centinaia di milioni. La discussione – tecnicamente complessa- alla fine si riduce a una semplice domanda: “siete pronti a spendere alcune centinaia di milioni di euro per evitare che l’età di pensionamento dagli attuali 64 anni torni a 67?”. A oggi, la risposta del Governo è sì.

Seguendo il dibattito pubblico, potrebbe sembrare che quella pensionistica sia l’unica politica di welfare rivolta agli anziani mentre così non è: c’è anche l’assistenza a chi non è più autosufficiente. Quest’ultima, benchè di grande rilevanza, soffre di una differente barriera informativa: semplicemente, i mass media e la politica non ne parlano. Intendiamoci, non è da oggi. Tale settore del welfare è ormai diventato per antonomasia il caso studio di distanza tra la vastità di una questione sociale – che, contando gli interessati, i familiari e gli operatori, coinvolge circa 10 milioni di persone – e l’esiguità della consapevolezza politica in merito.

Per quanto riguarda la coalizione di Governo, il tema non è mai stato affrontato né in campagna elettorale, né nel discorso d’insediamento della Premier né in altre occasioni; i programmi contengono proposte limitate in materia. Allo stato attuale è come se per il nuovo Esecutivo l’assistenza agli anziani non autosufficienti non esistesse.

Eppure le cose da fare non mancherebbero. Bisogna approvare entro marzo 2023 la riforma del settore prevista dal PNRR, voluta e influenzata dalla società civile attraverso il Patto per un Nuovo Welfare sulla Non Autosufficienza. Una riforma, tuttavia, per cui non sono stati sinora individuati fondi: adesso vanno progressivamente recuperati, non solo per costruire un welfare migliore per un domani, ma anche per cominciare a rispondere ai tanti bisogni che restano insoddisfatti oggi.

Tiriamo le fila. Il welfare per gli anziani comprende le aree delle pensioni e della non autosufficienza. Poiché le risorse non sono mai infinite – men che meno nella prossima legge di Bilancio, a causa della crisi energetica – dare qualcosa a qualcuno significa sempre, inevitabilmente, scegliere di non darla a qualcun altro. Non è particolarmente piacevole, ma la realtà è questa. La politica – com’è naturale che sia – cerca regolarmente di nascondere questa dura verità, per evitare le critiche riguardanti i “perdenti” del processo decisionale, cioè coloro ai quali non si è data risposta. Pertanto, viene spontaneo porre a chi guida il Paese il seguente quesito: “ritenete prioritario consentire ai 64enni in buona salute di andare subito in pensione o rafforzare l’assistenza per gli 88enni con demenza?” Al momento, il Governo mostra di propendere per la prima ipotesi.

Questo è quello che mi sembra di aver capito sin qui in merito agli orientamenti del nuovo Governo in materia di welfare. Come sempre, poi, saranno i fatti a dire la parola decisiva.

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