Nel baillame del secondo welfare, declinato tutto o quasi in chiave for profit, ci si dimentica del welfare di chi opera nel sociale, lavorando in un’organizzazione non profit e d’impresa sociale. Non è certo un segmento particolarmente consistente, ma neanche così residuale. Secondo i freschissimi dati del Censimento nonprofit dell’Istat si tratta di oltre 680mila addetti retribuiti e se a questi si aggiungono gli oltre 4,7 milioni di volontari la partita è ancor meno secondaria. Chi e come è in grado di strutturare un’offerta di protezione sociale per queste persone integrando (o sostituendo) quella pubblica? In realtà le esperienze, anche se embrionali, non mancano: il consorzio SIS di Milano, ad esempio, sta addirittura monitorando il grado di fruizione e di soddisfazione dei lavoratori delle proprie cooperative rispetto a una pletora di servizi integrativi (dai trasporti alla sanità). O ancora il social club dei lavoratori del non profit torinese.
C’è quindi una crescente attenzione per questo tema. Ma non solo per una sorta di “responsabilità sociale del sociale”. Ci sono di mezzo anche i nuovi modelli di business sperimentati dall’imprenditora sociale. L’apertura da parte di queste imprese di strutture ambulatoriali e di altri centri di servizio che si finanziano non con convenzioni pubbliche ma con risorse out of pocket dei privati cittadini contano proprio sulla loro clientela interna per arrivare al punto di equilibrio economico accelerando il processo di startup. Del resto è davvero un’interessante risorsa da mobilitare: sono centinaia le persone che lavorano nelle cooperative sociali legate alle reti federative e consortili locali e se a queste si aggiungono le loro reti familiari e parentali ne vien fuori uno “zoccolo duro” di clientela fidelizzata che farebbe gola a qualsiasi altro imprenditore non in grado di contare su un simile asset.
Il problema è che non è facile farlo. Nonostante questo gruppo target sia ben chiaro nella mente (e nelle strategie) dei promotori, alla prova dei fatti non è così semplice coinvolgerlo. E a poco valgono le tradizionali politiche di prezzo (lo “sconto soci”). Ci vuole altro probabilmente. Un più faticoso (e lento) processo di creazione di una comunità interna che sia un reale “portatore di interessi” anche per il fatto di riconoscersi come gruppo di acquisto che mutualizza i propri bisogni e contemporaneamente cofinanzia nuove economie di rete. Un processo dai risvolti positivi lampanti, ma che probabilmente richiede nuovi linguaggi e forme di coinvolgimento. Un pò come hanno tentato di fare gli inglesi, anche se in forma diversa, con la loro campagna buy social che mira a costituire una piattaforma di acquisti generata dalle imprese sociali. Perché altrimenti quel che sembra un “valore aggiunto” rischia addirittura di trasformarsi in un boomerang.
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