«Reinventiamo in un contesto nuovo i concetti della cooperazione e del mutuo soccorso. E il welfare di domani passa proprio per esperienze di questo tipo». Le esperienze evocate sono quelle dell’housing sociale e la frase è di Giuseppe Guzzetti, presidente di Fondazione Cariplo e promotore della Fondazione Housing Sociale, il principale developer nazionale in questo settore. E’ presa da un post pubblicato sulla Nuvola del lavoro che pare quasi un appello affinché si sblocchino i finanziamenti di Cassa depositi e prestiti dedicati proprio all’abitare sociale. Traspare evidente il sospetto che il ritardo preluda a una “distrazione” dei fondi da destinare alle priorità di un governo per cui la stabilizzazione dei conti pubblici viene prima di qualsiasi investimento.
Nello stesso giorno esce però la notizia dello scandalo di Alisei: un cantiere di autocostruzione a Ravenna (ma mi dicono che ce ne sono altri in giro per l’Italia) dove i futuri abitanti e costruttori sono stati truffati. Proprio sul modello di social housing dove si evidenziano i principali elementi di peculiarità di questo “diverso modo di abitare”: coinvolgimento fin dalla fase progettuale, ruolo attivo dei beneficiari, spazi e servizi in comune, ricerca di un mix di situazioni abitative, ecc.
Nonostante questo l’housing sociale è ormai oggetto di interesse di una pluralità di attori. Non solo quelli specializzati o di tipo non profit. Anche i principali eventi fieristici sulle costruzioni si aprono a questo modello, probabilmente perché può rappresentare una nuova frontiera di business che risponde a una domanda crescente di qualità abitativa e che consente di intercettare risorse pubbliche dedicate (se verranno sbloccate).
Se si prende alla lettera la frase di Guzzetti per fare un buon social housing c’è però bisogno di organizzazioni che sappiano innovare cooperazione e mutualismo nel welfare. C’è bisogno quindi di un’imprenditoria sociale capace di guardare in un’ottica spaziale alla produzione di servizi di interesse collettivo. A solo titolo di esempio basti pensare alle centinaia di servizi educativi, diurni, sanitari, culturali, ecc. ospitati presso appartamenti o altri spazi condominiali. Allargando il raggio di azione di queste iniziative anche solo ai pianerottoli, agli altri piani, agli spazi comuni dello stabile si potrebbe dar vita a un modello di azione, inedito ed efficace, per migliorare la qualità del servizio moltiplicandone i benefici.
Qualcuno ci ha già provato, o gli è capitato: cooperative sociali che hanno ristrutturato parti di immobili che ospitano gruppi appartamento e comunità alloggio si sono accorte di aver generato benefici per l’intero stabile, anche per i cittadini che con il servizio sociale centrano poco o nulla. E l’aver messo in moto un circuito virtuoso di questo tipo – dall’ascensone alla lavatrice in comune fino al gruppo di acquisto – ha mobilitato risorse utili a ridefinire la sostenibilità dei servizi stessi.
Il problema è sempre lo stesso: scalare le buone pratiche moltiplicandole per N strutture sparse per il paese. Si scoprirebbe cosi che c’è un altro “big player” del social housing. Quello della porta accanto.
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