Volontariato

Il volontario cambia faccia

È più egoista, perché cerca anche gratificazioni e vantaggi per sé. Ed è sensibile alle logiche del marketing, perché vuole conoscere chiaramente tempi, modi e benefit del suo impegno solidale. Un ide

di Carlotta Jesi

Il volontariato migliora la vita sessuale. Lo giura il 17% degli inglesi tra i 18 e i 24 anni che nel 2004 si sono impegnati per gli altri. E se pensate che sia un fattore irrilevante rispetto all?idealismo, l?altruismo, la gratuità e gli altri buoni sentimenti da volontario, vi sbagliate. In Gran Bretagna, è con i benefit che oggi si promuove l?impegno per gli altri: il volontariato, per esempio, aiuta a ridurre il consumo di alcol o sigarette (nel 22 e 30% dei casi) e a perdere peso (20%) (lo dice lo studio Make a difference Day della Icm Research). Ma pesano anche ?benefit? di carriera: secondo il 43% dei datori di lavoro – svela il Time Bank employer attitude survey – i dipendenti che fanno volontariato hanno più chance dei colleghi di essere promossi e di ottenere aumenti.

Altruismo interessato
Davanti a studi così, più di qualcuno potrebbe scandalizzarsi. Perché scandalizzarsi, o incolpare Mtv e le charity modaiole con testimoni alla Angelina Jolie di aver snaturato e ?glamourizzato? l?impegno per gli altri, è più facile che ammettere che il volontario di oggi è un volontario interessato. «I nostri utenti cercano tre cose: sfide, esperienze utili per una futura carriera e la possibilità di fare la differenza», dichiara, in homepage, il portale www.do-it.org.uk cliccatissimo dagli inglesi in cerca di un lavoro non retribuito. E lo studio The 21st Century Volunteer, commissionato dalla potente Associazione degli scout inglesi e pubblicato a novembre 2005, fa un passo ulteriore. «Abbiamo a che fare con ?selfish volunteer?», spiegano gli autori Elisha Evans e Joe Saxton, «persone che attribuiscono la stessa importanza a ciò che danno al volontariato e a ciò che da esso ottengono. Sempre più i volontari vorranno sapere cosa ci guadagnano: si tratti di un?esperienza di tipo lavorativo, di un?esperienza che ti cambia la vita, di un?esperienza che spezza la solitudine o la depressione».

È una contraddizione in termini questo selfish-volunteer, o volontario egoista? E, soprattutto, le charity devono snobbarlo o adattarsi alle sue esigenze? Alla prima domanda, Evans e Saxton rispondo che «il volontariato è una delle poche sfere della vita in cui i singoli possono davvero fare la differenza». Da qui il loro essere sempre più esigenti e i rischi che corrono le charity poco disposte a scendere a patti con l?imperante selfish altruism, o altruismo interessato.

Secondo Peter Hammond, di The Samaritans, il rischio numero uno è perdere volontari a favore della concorrenza: «Le organizzazioni non profit devono imparare che vendono un prodotto, un?esperienza, un particolare significato, e che i volontari faranno shopping in giro finché non troveranno il prodotto che risponde alle loro esigenze». Ma c?è addirittura chi teme che la concorrenza si estenda fuori dal terzo settore: «La competizione non è solo tra enti non profit, tra noi e i Samaritani, per esempio», precisa John Ramsey di Citizen Advice, «ma tra il non profit, il cinema, le vacanze o il golf».

Da volontario ad attivista
Tra le charity – poche per ora – già venute a patti con l?altruismo interessato dei volontari, c?è Oxfam. «La fuga di volontari si combatte riconoscendo che hanno necessità e aspettative proprio come le organizzazioni che le impiegano», spiega Carolyn Myers. E se, d?accordo con la Myers, molte sigle sociali intravedono in un volunteer-management sempre più professionalizzato la via d?uscita alla carenza di volontari, soprattutto giovani, nel Regno Unito non manca chi sostiene che sia la parola stessa volontariato a dover cambiare. «Così come la usiamo, scoraggia un gran numero di possibili ?reclute?, soprattutto tra i ragazzi fra i 16 e i 25 anni», confessa Adrian Smith di Crime Concern.

E il rapporto commissionato dall?Associazione degli scout, che individua nove tendenze del volontariato del ventunesimo secolo, è sulla stessa lunghezza d?onda, sancendo l?ascesa del giovane attivista e il declino del giovane volontario: «I giovani con una coscienza sociale sono pro attivisti, sono pro attivi nello scegliere come spendono i loro soldi e il loro tempo. Se, dunque, vogliamo spingerli a fare volontariato, dobbiamo incoraggiare l?attivismo piuttosto che un generale ?dono di tempo?, fuori moda e poco sfidante». L?equazione alla base di questo ragionamento è semplice: il volontariato giovanile ha bisogno di un radicale cambio di immagine, e l?attivismo centra questa nuova immagine perfettamente. Ma basterà parlare di attivismo, o pro attivismo, piuttosto che di volontariato, per ?catturare? giovani sempre più sfuggenti che all?impegno col logo, di questa o quella ong, preferiscono un tipo di volontariato informale e sempre più spesso cercato e gestito su Internet?

Parola d?ordine: marketing.
No che non basta. Almeno questa è l?opinione degli stessi Elisha Evans e Joe Saxton , che concludono il loro rapporto con la più provocatoria delle raccomandazioni: fare marketing del volontariato. «Perdonateci per quello che stiamo per dire», avvertono, «ma McDonald?s può insegnare un paio di cose alle charity su questo argomento: avete mai visto un menù senza prezzo, porzioni poco chiare o un tempo d?ordinazione indefinito? No, il prezzo è fisso, gli ingredienti pure e il tempo d?attesa basso. E poiché è facile, la gente ordina. Paragonate quest?offerta alla tipica richiesta di volontari («La nostra charity cerca volontari»), dove il tempo di lavoro non è indicato, i benefit sono vaghi e il modo in cui verrai impiegato generalmente non è indicato, e capirete perché c?è bisogno di marketizzarla».

A ben vendere, la sostanza del volontariato non cambia: era e resta un regalo, ma a chi lo fa e a chi lo riceve, bisogna ?venderlo? come privilegio. Come opportunità di fare, concretamente, la differenza.

I casi
Il Made In England fa scuola

I volontari da 1 minuto
Quanti minuti di volontariato puoi donare? Se la risposta è 90, 20 o anche solo 1, c?è un sito che dà le dritte giuste agli inglesi: www.yearofthevolunteer.org. A forza di 60 secondi di tempo regalati agli altri, da gennaio a dicembre 2005 gli inglesi hanno donato 1.600.362.917 minuti di volontariato. L?impatto di questo impegno spicciolo? Il sito suggerisce migliaia di azioni da fare a seconda dei minuti liberi. Con 10, o anche meno, puoi chiamare un amico bloccato a letto o aiutare un disabile a scendere dal treno. Con 30 puoi raccogliere cartacce in un parco o portare materiale di seconda mano in un charity shop.

E così via, perché il motto del portale è «ci sono miliardi di minuti da donare».

Gap year volunteer
Sono i ragazzi inglesi, tra i 18 e i 25 anni, che trascorrono l?anno sabbatico tra scuola superiore e università, o tra università e azienda, facendo volontariato. Di quelli che si mettono in viaggio ogni anno – più di 200mila secondo il quotidiano inglese The Observer – meno del 20% fa volontariato tutto l?anno.

Il ministro del Tesoro, Gordon Brown ha deciso di far decollare la percentuale con un incentivo: pagherà l?università, con fondi pubblici e privati, a chiunque dedica il gap year al volontariato. Un rischio dell?operazione? I cosiddetti gap-addicts: i ragazzi che, dopo 12 mesi di volontariato, decidono di prolungare il loro viaggio sabbatico di 1, 2 o anche 5 anni.

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