Cultura
Il virus che ha salvato l’arte dall’estetismo
Questo momento segna la fine di un’epoca, la fine dell’arte pre-virus, la fine dell’estetismo che parla solo a sé stesso. Che lo faccia volontariamente o no, non ha alcuna importanza. Nella sua Estetica, Luigi Pareyson diceva che l’arte incarna “l’essenza stessa della comunicatività”. Dal mondo disestetizzato dal virus, vogliamo che torni a essere così
Mentre, in questo tempo afflitto, la pubblicità segna il passo (rivelando, attraverso una pletora di spot retorici e insulsi, non tanto i limiti del suo linguaggio, quanto forse quelli di chi la produce), che ne è di quell’altro grande bollitore di mezzi espressivi e comunicativi che va sotto il nome di arte? Domanda pretenziosissima, alla quale è consentito avvicinarsi solo nella consapevolezza di non poter dare vere risposte; un po’ per la vastità del tema, che defluisce in tanti rivoli (tanti quanti, almeno, sono gli artisti contemporanei degni di nota…) e un po’, anche e ovviamente, perché le uniche risposte degne saranno le realizzazioni degli artisti stessi. Solo l’arte, insomma, potrà dire davvero cosa sarà dell’arte dopo la pandemia.
Tuttavia, noi ora siamo nel mondo disestetizzato dal virus, e da qui guardiamo; se non il futuro – l’arte è imprevedibile, altrimenti è maniera – almeno il passato. E a un primo colpo d’occhio, gettato alla rinfusa, vien da dire che l’arte si è ritirata in un suo mondo esclusivo ed escludente, dove – generalizziamo – si parla un linguaggio alieno, indecifrabile, che ha fatto dell’anticomunicazione il suo marchio più riconoscibile.
Ma questo lo sapevamo anche prima. O meglio: lo tolleravamo, prima. Oggi, poiché siamo disestetizzati dal virus, non ci va giù. L’arte, se vuole rimanere tale, deve cambiare.
Cos’è il mondo disestetizzato dal virus? È il mondo purificato, per l’irrompere della tragedia, da quella malattia dell’arte e della vita che si chiama "estetismo". È il mondo visto da una cima, come nel Viandante sul mare di nebbia, il quadro di Caspar David Friedrich (foto qui sotto) che segnò l’inizio del Romanticismo. Lo sguardo si spinge più lontano che può, ma intanto certifica la nebbia nella quale era immerso, dalla quale è risalito, e alla quale aveva consegnato la vita come a un bozzolo che ne avvolgesse e proteggesse (con l’effetto collaterale di ottunderli) i contorni. Quella nebbia pervasiva e soffocante che per l’arte è estetismo, e per la vita (che è una forma d’arte) anestetico delle sue spinte più originarie e profonde.
Tre fatti artistici recenti, da sottoporre al disincanto di questo sguardo.
Il primo è di un anno fa. Maggio 2019: la celebre casa d’aste Christie’s vende Rabbit di Jeff Koons a 91,1 milioni di dollari, il prezzo più alto mai pagato per l’opera di un artista vivente. Rabbit è un orrendo coniglietto alto circa un metro, la cui superficie di acciaio specchiante, attraversata da delicate linee di giunzione e grinze, simula quella dei palloncini gonfiabili che si vendono nei luna park. Rabbit è stato acquistato da Robert Mnuchin, gallerista d’arte di New York ed ex partner (per 33 anni, fino al 1990) della banca d’affari Goldman Sachs, una di quelle coinvolte nella crisi che causò la spaventosa recessione del 2008.
Robert Mnuchin avrebbe acquistato l’orrido coniglietto per conto di un suo cliente, Steven A. Cohen, collezionista e miliardario, gestore di hedge-fund, che nel curriculum sfoggia, tra le altre cose, una sentenza di colpevolezza per insider trading e conseguenti multe per 1,8 miliardi di dollari.
Robert Mnuchin è il padre di Steven Mnuchin, attuale Ministro del Tesoro degli Stati Uniti per l’amministrazione Trump (pare che il padre, democratico, non ne sia felice), nonché banchiere e produttore cinematografico.
Si impongono un paio di considerazioni: una sull’opera e una sul mercato che la sostiene.
Sull’opera. Be’, potrebbe anche essere geniale, in barba al gusto di chi – l’estensore di questo scritto – appena qualche riga fa l’ha definita orrenda. Questo per chiarire che ciò di cui si parla, adesso, è indipendente dal valore artistico che attribuiamo o non attribuiamo al lavoro di Koons. Il tema non è ancora estetico (e nemmeno morale). È semantico. Cosa dice, alla nostra vita ferita dal virus, quest’opera così rilevante da aver spostato tutti quei soldi?
Byung-Chul Han, professore alla Universität der Künste di Berlino, introduce, a questo proposito, una parola interessante: ‘levigatezza’. Con essa individua il modo di essere, nella forma, dell’estetismo di cui s’è detto: «La levigatezza è il segno distintivo del nostro tempo» – dice in La Salvezza del Bello – «È ciò che accomuna le sculture di Jeff Koons, l’iPhone e la depilazione brasiliana».
È un taglio prospettico che svela, di quanto accennato, certi tratti concreti: «Perché oggi troviamo bello ciò che è levigato? Al di là dell’effetto estetico, esso rispecchia un generale imperativo sociale, incarna cioè l’attuale società della positività».
Positività come imperativo che si manifesta non tanto a parole, quanto nella forma che prendono le cose (e con esse la vita). Ad esempio: «Lo smartphone LG G Flex è addirittura ricoperto da una pellicola autorigenerante che fa scomparire molto velocemente ogni graffiatura, dunque ogni traccia di lesione. Inoltre è flessibile e pieghevole (…). In tal modo si adatta perfettamente al volto e alla postura. Questa adattabilità e questa assenza di resistenza sono tratti costitutivi dell’estetica della levigatezza».
Jeff Koons di tutto questo è, nell’arte contemporanea, l’espressione più plateale: «In Koons non c’è alcun disastro, alcuna lesione, o fenditure o strappi. Tutto fluisce in transizioni morbide e levigate; tutto risulta arrotondato, liscio. (…) Non c’è nulla di quanto offre che vada interpretato, decifrato o pensato: è un’arte del ‘like’. Jeff Koons dice che l’osservatore delle sue opere dovrebbe soltanto esclamare un semplice ‘wow’. È chiaro che al cospetto della sua arte non è necessario alcun giudizio, né interpretazione o ermeneutica, riflessione o pensiero. Essa resta coscientemente infantile, banale, impassibilmente rilassata, disarmante e alleggerente, poiché è svuotata di qualsiasi profondità, di qualsiasi abissalità e malinconia».
Secondo lo studioso di origini coreane, «l’arte di Koons presenta una dimensione soteriologica: promette una redenzione. Il mondo della levigatezza è un mondo di pura positività in cui non c’è alcun dolore, alcuna lesione, alcuna colpa. La scultura Balloon Venus, nella posizione del parto, è la Maria di Jeff Koons. Ma lei non partorisce alcun redentore, alcun homo doloris cosparso di ferite e con la corona di spine, bensí uno champagne, una bottiglia di Dom Pérignon Rosé Vintage 2003 collocata nel suo ventre. (…) L’arte di Jeff Koons (…) mette in scena una religione della levigatezza, del banale, una religione del consumo, e per questo ogni negatività deve essere eliminata. (…) Il bello si estenua nel mi-piace. L’estetizzazione si mostra nel modo dell’anestetizzazione, la quale seda la percezione».
Al mondo sconvolto dal virus, quest’arte non ha nulla da dire. Lo conferma – e qui scendiamo dalle precedenti altezze filosofiche abbastanza bruscamente – una considerazione molto terra terra: non c’è l’impressione che, nel mercato che tratta queste opere, un po’ se la cantino e se la suonino?
Insomma, l’acquirente è un ex banchiere, i suoi clienti sono uomini dell’alta finanza, suo figlio è il ministro del tesoro di Trump, Jeff Koons stesso fu, per un breve periodo, operatore di borsa a Wall Street… questi uomini sono i maestri delle bolle speculative, sono quelli bravi ad attribuire valore di mercato a ciò che valore non ha. Come fecero con i mutui subprime, la cui rendita venne gonfiata per anni e il cui crollo portò al disastro economico tutto il pianeta. Certo, è semplicistico, ma non viene naturale pensare che di mestiere questi uomini facciano i ‘gonfiatori’? Non sarà che, impossibilitati a creare nuove bolle finanziarie, ora si dedichino a crearne di altrettanto remunerative nel mondo del collezionismo miliardario? È il mercato reale dell’arte a dire che Rabbit vale 91,1 milioni di dollari, o è un mercato gonfiato (ad arte)?
Il fatto che Koons produca opere simili a bolle di sapone e palloncini gonfiabili – vedi un po’ le affinità elettive – aggiunge un tocco di amarissima ironia.
Sia così o no, vista dal disincanto del virus, questa arte è inutile (e questo, sì, è un giudizio estetico e morale). Apparterrà sempre e solo a una élite di collezionisti super ricchi, vuoti come le opere di cui si beano, e noi a quel mondo, volentieri, la lasciamo.
Il secondo fatto artistico di cui vogliamo dire, più velocemente, è stato premiato alla Biennale di Venezia dell’anno scorso. Si tratta di un lavoro di tre artiste lituane (Rugilė Barzdžiukaitė, Vaiva Grainytė e Lina Lapelytė) che oggi, fa notare Clara Mazzoleni su Rivista Studio del 23 aprile 2020, assume una fisionomia stranamente premonitrice: «L’opera che ha vinto il Leone d’Oro, Sun & Sea (Marina) aveva trasformato gli interni della Marina Militare in una spiaggia illuminata artificialmente, piena di persone ‘normali’ in costume impegnate nelle solite cose che si fanno in spiaggia: leggere, prendere il sole, spalmarsi la crema, ecc. Lo spettatore era invitato a guardare il tableau vivant dall’alto di un ballatoio al piano superiore della sala e anche ad ascoltare, visto che si trattava di un’opera-performance: ogni personaggio della scena, cantando, rivelava inquietudini e preoccupazioni che avevano a che fare, tra le altre cose, con il surriscaldamento climatico. Oggi, l’opera acquista un ulteriore livello di lettura: impossibile non pensare all’assembramento a cui nell’estate in arrivo saremo costretti a rinunciare. Lo spettatore che guarda dal ballatoio siamo noi che, a distanza di sicurezza, osserviamo il nostro passato».
Il terzo fatto artistico è, ovviamente, la banana che Maurizio Cattelan ha appiccicato sul muro all’Art Basel di Miami, sul finire del 2019, quindi proprio a ridosso del virus. Di quest’opera ha detto bene Roberto Ago, su ArtTribune del 12 dicembre: «A taluni è sembrato un capolavoro di sprezzatura, a tal’altri mera spazzatura, e il bello è che, in barba ad Aristotele, comunque ci si schieri si ha torto e ragione ad un tempo».
Dal mondo disestetizzato dal virus, noi vediamo questi due ultimi fatti artistici come incoraggianti. Il primo perché, recuperando una dimensione profetica dell’arte, ne conferma il nesso costitutivo con la verità. Che lo faccia volontariamente o no, non ha alcuna importanza. Sun & Sea è una bella opera, spiazzante e semplice, densa di comunicatività.
Il secondo perché segna la fine di un’epoca, la fine dell’arte pre-virus, la fine dell’estetismo che parla solo a sé stesso. Che lo faccia volontariamente o no, non ha alcuna importanza. Che sia sfacciata fortuna cronologica, piuttosto che genialità, non cambia la sostanza. Quel chiasmo fatto di una banana e un pezzo di scotch incrociati, quella X secca sul muro, intitolata Comedian – sulla quale molto ci sarebbe da dire – è una X messa su quell’arte che ha smesso di comunicare con le nostre istanze più profonde, su quell’arte che si è fatta, appunto, ‘comedian’, pagliaccio, che ama prenderci in giro. È una X che dice: stop, basta, finisce qui.
Nella sua Estetica, Luigi Pareyson diceva che l’arte incarna “l’essenza stessa della comunicatività”. Dal mondo disestetizzato dal virus, vogliamo che torni a essere così.
Nella foto di apertura: Sun & Sea (Marina), l'opera lituana che ha vinto il Leone d'Oro alla Biennale di Venezia. ©Photoshot/Sintesi
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