Welfare

Il valore politico del lavoro

L'intervento dello storico sindacalista della Cisl: « Non si tratta cioè solo di rivedere le politiche del lavoro ma di ridare al lavoro nuova centralità e rappresentanza politica. Se ai sindacati spetta l’organizzazione dei lavoratori spetta ai partiti rappresentarli politicamente. assumendo nella propria coscienza collettiva il problema del lavoro, assicurando una presenza significativa di lavoratori nelle proprie fila e una presenza di pensiero e azione fra i lavoratori»

di Sandro Antoniazzi

Oggi il mondo del lavoro è estremamente diversificato, parcellizzato. Non vediamo più le grandi fabbriche con la forza collettiva della classe operaia, ma i lavoratori e i loro problemi sono aumentati. Venticinque milioni in Italia (fra dipendenti e autonomi), circa tre miliardi nel mondo. Persone che creano valore, producono ricchezza, pensano, agiscono, sono al centro delle grandi trasformazioni tecnologiche, ambientali, globali. Siamo entrati in un’epoca di transizione, dove i cambiamenti si intrecciano e si accumulano tra loro e solo una valida intesa tra politica, imprese, sindacati, lavoratori può consentire al paese di affrontarla con successo. Occorre ridare centralità e valore politico al lavoro, sostituendo le idee di ieri con idee collettive nuove. Una riflessione in cinque punti:

  • 1. La dignità del lavoro. In una società democratica evoluta dovrebbe essere assicurata ad ogni lavoratore. Riguarda tanti aspetti: salario, ambiente, professionalità, cultura, possibilità di crescita. È un principio sostenuto dall’Oil e posto come ottavo obiettivo nell’Agenda Onu 2030. Sottolineo in particolare due aspetti. Parlerei di salario vitale, più che di salario minimo; che consenta a tutti di vivere dignitosamente. Esistono ancora e diffuse situazioni di vera disumanità, con remunerazioni a 3 o 4 euro all’ora, buste paga con meno del dovuto, lavoratori sfruttati e umiliati. Dobbiamo contrastare con ogni mezzo questo degrado umano. Non è solo una battaglia legislativa e contrattuale ma anche sull’economia, il lavoro nero, le situazioni di arretratezza. In secondo luogo, dignità significa rispetto delle persone, di ogni persona. Troppi lavoratori sono trattati in modo indegno, particolarmente fra gli strati più deboli, immigrati e anche donne. Recentemente è stato firmato un accordo all’ENEL dal titolo “Statuto della persona” e dimostra che ormai le esigenze umane vanno al di là delle tradizionali rivendicazioni e hanno una portata culturale e civile per l’intero paese.
  • 2. La formazione e la cultura. Siamo in una società sempre più complessa, dove i cambiamenti sono continui, nel lavoro e nella vita sociale. I requisiti cognitivi di base richiesti per accedere al lavoro, ma anche per la vita civile, sono sempre più elevati. Molte offerte di lavoro rimangono inevase: sono richieste di persone già preparate. Ma chi le forma? Certamente le scuole tecniche e professionali, ma anche le aziende dovrebbero fare di più. I contratti e gli enti bilaterali affrontano il problema, ma la dimensione è ancora inadeguata. Occorrerebbe che i sindacati, con un appoggio legislativo, lanciassero un grande piano formativo/culturale analogo a quello fatto cinquant’anni fa con le 150 ore, con cui si è dato il titolo di Terza Media a centinaia di migliaia di lavoratori e si è creato uno stimolo culturale al di là dei temi scolastici. Parlo di un piano aperto a tutti perché la conoscenza non sia riservata a un’élite e non diventi un altro fattore di diseguaglianza.
  • 3. Il rapporto lavoro-vita. Si sta rapidamente evolvendo. Le due cose non si identificano più e la vita viene ritenuta giustamente più importante del lavoro, di un lavoro che dice poco o niente alla persona. Questa tendenza a volte si manifesta in modo dirompente, come nel caso della great resignation, la grande dimissione: migliaia di lavoratori che si licenziano lasciando un lavoro che non dà senso, poi si vedrà. È una vera svolta storica, una critica al lavoro nuova, esistenziale, radicale: non è la persona che deve adattarsi al lavoro, è il lavoro che dovrebbe adattarsi alla persona. Esistono strumenti e rivendicazioni che possono in parte rispondere a queste nuove esigenze. MI riferisco, ad esempio, alla riduzione dell’orario di lavoro in modo differenziato, tenendo conto di esigenze diverse. Alcune aziende già stanno adottando la settimana di quattro giorni, ci sono casi di flessibilità oraria, di lavoro da remoto, di orari a menu o di 30/32 ore settimanali per uomini e donne, consentendo una migliore divisione del lavoro domestico. Anche un sistema di welfare universale potrebbe costituire una risposta utile. Possiamo dire che accanto alla forte richiesta di flessibilità da parte aziendale si deve affermare un’analoga richiesta di flessibilità da parte dei lavoratori. Il soggetto principale di questa prospettiva è il sindacato, ma essa è ormai espressione di un modo di pensare collettivo, che costituisce una forza che obbliga le aziende e le istituzioni a tenerne conto e cambiare.
  • 4. I lavoratori continuano ad essere dipendenti (e molti lavoratori autonomi sono in condizioni analoghe), con tutto quello che questo comporta. All’origine il movimento dei lavoratori combatteva per migliorare le condizioni di lavoro ma anche per superare questa condizione di dipendenza. Essa pesa oggi in particolare sulle donne, i giovani e gli immigrati. C’è uno stridore evidente tra la condizione del lavoratore in azienda e la sua condizione di cittadino libero in una società democratica. Nonostante tanti anni di democrazia, i rapporti in azienda sono rimasti sostanzialmente fermi e molti lavoratori stentano a sopportarlo. Se non trovano risposte reagiscono col disinteresse, col quiet quitting (fare il minimo indispensabile). C’è quindi una grande esigenza che i lavoratori contino di più per quanto attiene il proprio lavoro, le mansioni, l’organizzazione. È il grande tema del riconoscimento nelle aziende della loro partecipazione. Cinquant’anni fa lo Statuto dei Lavoratori ha segnato una grande pagina di civiltà; oggi serve un nuovo salto di qualità.
  • 5. Lavori del Terzo settore, del sociale, della cura delle persone. Deve essere decisamente riconosciuto il loro valore politico, corrispondente all’ampiezza delle risposte che forniscono alla società. Il lavoro domestico, della riproduzione, delle assistenti familiari, delle RSA sono settori dove i bassi salari sono diffusi perché la cura alla persona per sua natura non consente aumento di produttività. Non possiamo dunque pensare che da un miglioramento dell’economia, derivi un miglioramento di questi salari. Occorre considerare queste attività alla pari dei servizi pubblici, riconoscendogli il giusto trattamento. E riconoscendo una più equa divisione tra tutti del relativo carico di lavoro, oggi in larga misura sostenuto da donne.

Non sono temi di politica del lavoro ma sono temi politici tout court, perché sono rivolti a cambiare la società. Sono parte di una nuova visione della società e della dignità delle persone. Non si tratta cioè solo di rivedere le politiche del lavoro ma di ridare al lavoro nuova centralità e rappresentanza politica. Se ai sindacati spetta l’organizzazione dei lavoratori spetta ai partiti rappresentarli politicamente. assumendo nella propria coscienza collettiva il problema del lavoro, assicurando una presenza significativa di lavoratori nelle proprie fila e una presenza di pensiero e azione fra i lavoratori, dimostrando quotidianamente di essere dalla loro parte, tenendo un rapporto costante con le organizzazioni sindacali, in forma unitaria e con una visione prospettica. Anche realizzare una seria cooperazione con le imprese, sulla base di rapporti chiari e di comportamenti rispettosi dei diritti umani e sociali e dell’ambiente, costituisce una necessità. Il rischio è che la forza di una concorrenza senza regole proceda progressivamente accrescendo condizioni di lavoro fragili e precarie, a volte realmente servili.

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