Mondo

Il tutsi che non sapeva odiare

Allo scoppio della guerra civile, François Xavier rischiò lui pure di cadere sotto i machete degli hutu.Ma oggi predica la necessità del perdono.

di Antonietta Nembri

A vere trent?anni e vivere sulla propria pelle l?odio e il terrore di morire. Vedere i propri vicini di casa ammazzati, mutilati a colpi di machete, e scoprire dentro di sé la forza di comprendere e il desiderio di perdonare. François Xavier Ngarambe, un insegnante ruandese, appartiene all?etnia tutsi. La sua vita è sprofondata in un pozzo di sangue nell?aprile del 1994, quando le Nazioni Unite abbandonarono il Paese in balìa della guerra civile e la comunità internazionale ha cominciato ad assistere, impotente e indifferente, al genocidio di 800 mila ruandesi. Tra quelle vittime avrebbero potuto esserci anche lui e sua moglie, Solange. Ngarambe è arrivato a Roma per portare la sua testimonianza davanti al Papa, per spiegare quanto sia complicato scegliere il cammino della riconciliazione in un Paese governato dall?odio. «Il 7 aprile 1994 un vicino è arrivato per dirci che le milizie stavano uccidendo la gente del quartiere, e siamo scappati», racconta François Xavier Ngarambe. «Ci siamo rifugiati nella scuola dove insegnavo, lì c?erano anche i soldati dell?Onu, i caschi blu, decine di famiglie. Stavamo lì dentro, negli stanzoni della scuola, e non dicevamo niente ma avevamo un unico pensiero, un?ossessione: sapevamo che era questione di ore, forse di minuti, ma sarebbe arrivato il nostro turno per essere ammazzati. Poi i caschi blu se ne sono andati e noi siamo rimasti soli, in compagnia del terrore e dell?angoscia». In quei momenti François Xavier Ngarambe e sua moglie hanno trovato conforto in un passo della Bibbia, quello che dice: «È meglio rifugiarsi nel Signore che confidare nell?uomo. È meglio rifugiarsi nel Signore che confidare nei potenti». Una settimana dopo i soldati hutu sono entrati nell?edificio, hanno svuotato una sala dove si erano rifugiate 70 persone e le hanno fucilate. François Xavier Ngarambe, sua moglie e altri profughi sentono i passi dei soldati che corrono nel corridoio della scuola. Le loro urla impazzite, il rumore dei fucili. Sono paralizzati dalla paura, sanno che è solo questione di attimi. «Gli assassini sceglievano le loro vittime, le abbattevano a colpi di fucile o di machete. Sentivamo i loro corpi cadere dai letti, nelle camerate dove ci eravamo rifugiati. Pregavamo: ?Padre, non quello che vogliamo noi, ma ciò che vuoi tu?. Quando sono arrivati nella nostra stanza, ci hanno portati fuori per fucilarci, ma ogni volta venivamo riportati dentro». Ma neanche in quel momento, quando non c?era un motivo per morire, quando la gente cadeva sotto i colpi di machete e la ferocia dei soldati hutu, monsieur Ngarambe è riuscito a odiare. «L?unico sentimento che ero capace di provare in quegli attimi era la paura, paura di morire, nient?altro», aggiunge l?insegnante ruandese. «Ma il momento più duro è stato quello successivo, quando ho compreso che dovevo perdonare i miei nemici e amarli. Non è una forza che ho dentro di me, è una forza che viene dal Signore. Lui mi ha chiesto di amare il mio prossimo, i miei carnefici. Perché Lui stesso ha fatto questo, ha amato chi lo ha ucciso. Perciò oggi abbiamo molta speranza nel futuro. Oggi ci sono i nostri figli che credono nella pace e nella riconciliazione. Le vedove si recano nelle prigioni per dare da mangiare ai carcerati, agli stessi soldati che hanno ucciso i loro mariti; i carnefici chiedono perdono delle loro colpe, delle azioni che hanno compiuto durante il genocidio Il mio popolo sta sviluppando una nuova coscienza perché tutti hanno capito che siamo tutti fratelli». Quando i soldati se ne sono andati François Xavier Ngarambe e la moglie sono fuggiti e si sono salvati. Ora, a cinque anni di distanza, François Xavier Ngarambe osserva la stessa follia che ha dilaniato il Ruanda ripetersi nel Kosovo, dove un popolo ammazza un altro popolo in nome della pulizia etnica. Da quando è iniziata la guerra in Kosovo, quasi ogni giorno il Pontefice lancia un appello per chiedere alla Nato e alla Serbia di deporre le armi. L?ultimo, pronunciato durante il suo viaggio in Romania, lo ha sottoscritto con il Patriarca rumeno Teoctist. Il 16 maggio François Xavier Ngarambe incontra il Papa. «Il Papa e il padre di una grande famiglia unita dall?amore, la fede e la speranza, che ci aiuta a tollerare le difficoltà e lavorare per un mondo migliore. Da lui abbiamo tratto il coraggio e la forza spirituale per resistere. Il suo appello per la pace è stata una grande consolazione, per noi e per tutte le persone che vengono cacciate dalla loro terra. Purtroppo, però, il sostegno che il mondo ha dato al popolo kosovaro non è stato quello offerto al popolo ruandese…». Dal Papa i “testimoni della carità” Un hutu e un tutsi, un protestante e un cattolico, un?ebrea e un?araba cristiana a testimoniare che superare l?odio per il nemico, per chi è di etnia e religione diverse, trasformandolo in messaggio di carità, è una cosa possibile. Si incontreranno con il Papa e tutte le persone interessate ad ascoltare le loro esperienze domenica 16 maggio in Piazza San Pietro a conclusione del congresso mondiale ?I testimoni della Carità col Papa? promosso dal Pontificio Consiglio Cor Unum. Sul tema della riconciliazione, dopo i testimoni di Ruanda, Irlanda del Nord e Terra Santa, interverrà anche Joshi Nìrmala, la suora indiana cui Madre Teresa di Calcutta ha affidato la guida delle Missionarie della Carità e una precisa eredità: aiutare chi soffre. Proprio come le vittime della guerra nei Balcani, kosovare e serbe. Riusciranno a superare le differenze che li oppongono, a trovare una forza superiore all?odio dedicandosi all?aiuto reciproco? Anche e soprattutto a chi vive sotto le bombe sarà dunque dedicato il messaggio di Giovanni Paolo II sulla Carità e la riconciliazione. “Amico hutu, salva la mia bambina” Albert Kayigumiore è l?altra faccia della medaglia ruandese. L?altra parte della storia che François Xavier Ngarambe (vedi articolo a fianco) non può raccontare. Sì, perché mentre François è un tutsi, Albert è un hutu, l?etnia che ha commesso la maggior parte degli eccidi, nell?aprile 1994. Albert si trovava Kigali. Non si sentiva minacciato, così ha aiutato una donna tutsi che aveva ?infiltrato? i suoi figli nell?etnia nemica nella speranza di salvarli e ha accolto Luisa, una bambina di tre anni. Quando è arrivato il momento di scappare, la famiglia di Albert gli ha consigliato di lasciare la bambina: temevano di essere identificati come hutu e finire come gli altri, massacrati a colpi di machete. Il giovane hutu, che lavora come volontario nei progetti di assistenza della Fidesco in Ruanda, è stato colto dal dubbio: «Aiutare una piccola innocente a costo di mettere a repentaglio la vita dei suoi cari o abbandonarla al suo destino?». Si è trattato di un attimo, poco dopo era già in cammino con Luisa sulle sue spalle. Durante la fuga, ha incontrato i militari che stavano reclutando giovani hutu per compiere il massacro, e che però, vedendolo con una bambina, lo hanno lasciato passare. Lui doveva salvare la bambina e invece la bimba ha salvato lui. Albert, che è cristiano, in quel momento ha pensato a San Francesco d?Assisi che in una delle sue prehiere diceva: «È nel donare che si riceve».


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