Il triangolo del petrolio: Usa, Russia, Ucraina

di Marco Dotti

Una prima apertura, quasi un carotaggio in un terreno – quello della geopolitica dell’energia – che si presenta tutt’altro che facile.

Così, quando alla fine del giugno scorso il Commerce Department ha autorizzato due società, la texana Pioneer Natural Resources  e la Enterprise Products Partners di Houston, a esportare petrolio grezzo c’è chi ha gridato alla fine di un bando che, da quarant’anni, faceva divieto di commercializzare oltre confine petrolio greggio estratto sul suolo americano.  

Le cose sono un po’ più complesse e, come tali, difficili da decodificare basandosi soltanto sull’effetto-annuncio e sui comunicati stampa.

Analisti e critici si dicono scettici sugli effetti positivi, per il consumatore e il sistema, della rimozione del divieto – che per ora non c’è stata e forse mai ci sarà – stabilito nel 1975 in risposta alla crisi energetica globale nata dall’embargo decretato dall’Opec (Organization of the Petroleum Exporting Countries), accentuatosi dopo l’attacco egiziano e siriano a Israele nel giorno dello Yom Kippur (6 ottobre 1973)

Quarant’anni fa, in un clima di grande turbolenza, il divieto fu una risposta all’embargo petrolifero dei paesi arabi. Un embargo che quadruplicò il prezzo del greggio sul mercato mondiale, provocando crisi di scorte anche negli Usa. Oggi, la situazione appare alquanto diversa.

La fratturazione idraulica (il contestatissimo fracking o hydraulic fracturing) e la capacità di mettere a valore anche il gas estratto dalle rocce  di scisto (shale gas) hanno provocato, secondo alcuni analisti, un’abbondanza di risorse. Non tutti, però, la vedono così e c’è chi parla già della bolla prossima ventura come di “Bolla del fracking” (per un primo approccio, segnalo questo articolo di Anton Turiel, tratto da Effetto risorse il blog di Ugo Bardi, chimico dell’Università di Firenze).

La produzione di greggio ha toccato infatti il livello più alto di produzione dal 1986 e si calcola che la linea sarà ascendente fino al 2021, ma anche su queste proiezioni sono state avanzate critiche.

Esportare, secondo alcuni gruppi di pressione e opinione, sarebbe comunque una necessità. In attesa che il divieto venga rimosso, una serie di eccezioni – come quelle accordate alla Pioneer Natural Resources e alla Enterprise Products Partners per l’esportazione di “ultralight condensate oil”-, oltre a un numero crescente di sentenze che stanno di fatto rendendo permeabile il divieto, fanno si che almeno 1,2 milioni di barili possano essere mandati oltreconfine.

Il dato, però, contrasta con i 6,4 milioni di barili importati al giorno (di cui 400.000 – secondo stime indipendenti – che provengono dalla Russia). Ricordiamo che gli americani “consumano” quotidianamente 20 milioni di barili. Così, c’è chi comincia o continua a chiedersi: “How dependent are we on foreign oil?”.


Siamo davanti a un paradosso, osserva Kurt Cobb di Resource Insights.  A dispetto di una lettura approssimativa dei dati, gli Stati Uniti sono infatti forti importatori di petrolio greggio e di prodotti raffinati. La fine del divieto di esportazione, poiché i venditori vendono là dove a loro conviene e al prezzo che a loro conviene, aumenterebbe così le importazioni, soprattutto di petrolio di qualità pesante – adatto alle infrastrutture e alle raffinerie americane – con evidenti ricadute in termini di costi per il consumatore.

Alla questione posta da Cobb si ribatte che “il petrolio è un prodotto come tutti gli altri” – anzi una commodity – e come tale è da trattare.  Ma a monte c’è una questione ben più grande: è il ruolo geostrategico dell’energia.

L’evidenza è però lì a dimostrare che l’energia, sul piano strategico, non è una “commodity” come tutte le altre: nulla – osserva Cobb – viene prodotto senza energia. Per questo essa è una “commodity” molto speciale. 

Oggi, anche tra i conservatori americani c’è chi guarda con preoccupazione il tentativo di alcune lobbies di far passare la retorica secondo cui “aprire” le frontiere al petrolio “domestico” sarebbe un modo per “controllare l’heartland“, ossia l’Eurasia. Bizzarra teoria, ma come ogni teoria bizzarra ha saputo trovare i suoi estimatori.

“Aiutiamo l’Ucraina a ridurre la sua dipendenza dalla Russia”,suona così il ritornello di manager e giornalisti. Ma  pare che le lobbies, oltre che giocare pesante e sporco come loro solito, stiano anche giocando su un terreno alquanto rischioso per la sicurezza di tutti.

Si vorrebbe esportare più petrolio in Ucraina per rendere l’Ucraina indipendente dalla Russia e, per raggiungere questo scopo, aumentare l’importazione negli Usa di petrolio russo da rigirare all’Ucraina?  “Siamo arrivati all’assurdo”, commenta Cobb. Ma forse siamo semplicemente passati alla geopolitica (e alla geoeconomia) del ridicolo. 

@oilforbook

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