Salute
Il test “aptico” che permette l’integrazione dei bimbi non vedenti
In Italia è stato messo a punto un nuovo strumento per la misurazione dell’intelligenza non verbale dei bambini non vedenti. La ricercatrice che l’ha inventato, Carolina Cassar: «Un risultato eccezionale che migliora l'inclusione scolastica e scongiura diagnosi errate dei ritardi cognitivi»
Un “risultato eccezionale”, così Carolina Cassar, Dottore di ricerca in psicologia dinamica e clinica presso l’Università “La Sapienza” di Roma, ha definito il percorso che l’ha portata a mettere a punto il test per la misurazione dell’intelligenza non verbale dei bambini non vedenti di età compresa tra i 10 e i 16 anni. Unica in Italia e terza nel mondo, la ricerca mira a valutare con esattezza le abilità cognitive dei minori senza vista, scongiurando così diagnosi errate di ritardi cognitivi nei bambini non vedenti o ipovedenti che, a causa della loro disabilità, maturano strategie cognitive individuali e diverse rispetto ai coetanei vedenti. Alla base, un test “aptico” che è stato messo a punto dal Centro Regionale Sant’Alessio per i ciechi di Roma, con il Dipartimento di Psicologia Dinamica e Clinica dell’Università Sapienza e la collaborazione del Polo Scientifico dell’International Agency for the Prevention of Blindness (Iapb).
«Per me è stata un’esperienza di vita difficilmente archiviabile. La cosa che mi ha colpito di più, oltre al risultato scientifico eccezionale raggiunto, è stata la profondità dei pensieri di questi ragazzi, le loro storie, le doti inaspettate che ho scoperto», ha raccontato Carolina Cassar. «Il test, ancora in fase di sperimentazione, è l’unico – ha poi aggiunto – dedicato ai minori che si avvale dell’esplorazione tattile per la misurazione dell’intelligenza, al di là degli apprendimenti scolastici e culturali. Abbiamo selezionato due campioni di bambini, con disabilità visiva e vedenti, ai quali abbiamo somministrato delle prove cognitive, procurandoci di bendare i vedenti e gli ipovedenti, in modo da realizzare condizioni standardizzate. I ragazzi, presi singolarmente, hanno esplorato delle matrici tattili e completato l’organizzazione sulla base di correlazioni logiche».
«La ricerca, durata tre anni, ha dimostrato che lo strumento ha attendibilità e validità elevate e quindi è utile per valutare le abilità logiche, di rappresentazione mentale dello spazio, di apprendimento esperienziale e di coping nel minore con disabilità visiva. Abbiamo trovato uno strumento utile perché troppo spesso lo sviluppo cognitivo viene associato in modo negativo con la cecità e anche uno strumento simile a quello usato per i bambini vedenti», ha poi concluso.
«Conoscere le effettive potenzialità cognitive di un bambino non vedente o ipovedente – ha poi spiegato Maria Macrì, neuropsichiatra infantile e direttore medico del Centro Regionale Sant’Alessio di Roma – permette di effettuare un intervento riabilitativo mirato. In assenza di strumenti di misurazione scientifica dell’intelligenza standardizzati per non vedenti, infatti, si rischia non stimare adeguatamente le reali potenzialità di un bimbo, e quindi di compromettere o ritardare l’acquisizione delle tappe evolutive. Questo strumento facilita di fatto il nostro lavoro di riabilitatori, ma anche e soprattutto il percorso di inserimento scolastico e di inclusione sociale dei ragazzi».
«Il Sant’Alessio da oltre un decennio – ha poi aggiunto e concluso – è impegnato nella ricerca di strumenti utili e ha fattivamente collaborato alla realizzazione di questo strumento che ora dovrà essere ampliato anche alla fascia d’età 4/10 anni, età su cui intervenire per prevenire difficoltà nello sviluppo e negli apprendimenti scolastici. A questo punto l’impiego di questo test potrà davvero garantire una migliore definizione dell’approccio terapeutico e scolastico, definendo i punti di forza e le criticità dei ragazzi. Di standardizzato ad oggi non c’è nulla: questa ricerca è importante perché è il primo test di livello scientifico internazionale che ci dice quale profilo cognitivo sviluppa un ragazzo non vedente tra i 10 e i 16 anni».
Piena la collaborazione dei ragazzi, ma soprattutto delle famiglie. Cento in totale i giovani coinvolti, tra vedenti, non vedenti e ipovedenti. Tutti hanno compreso l’importanza di questa ricerca, benché ai più piccoli sia stata somministrata come un gioco. Tutti hanno scelto in libertà se partecipare o meno. Tutti, inevitabilmente, si sono sentiti coinvolti: migliorare la diagnosi aiuta a fare scelte più consapevoli.
«Sono soddisfatta – ha poi chiosato Maria Macrì -, ma so che possiamo fare di più per un percorso completo che includa anche i più giovani e che possa essere da stimolo e aiuto anche fuori dal Sant’Alessio». «La ricerca è utile – ha infine sorriso Carolina Cassar – e non deve fermarsi qui. È un primo passo». Il futuro guarda avanti, verrebbe da aggiungere.
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