Politica
Il Terzo Settore non deve essere solo riconosciuto, ma convocato
La ministra per la famiglia Elena Bonetti e il ministro per l’innovazione tecnologica e la transizione digitale Vittorio Colao in dialogo con il Terzo settore su "PNRR ed economia sociale tra sussidiarietà e innovazione”. Dal servizio civile digitale a un "fondo per la Repubblica digitale" che raccolga e scali le esperienze di formazione digitale diffusa sul territorio
“PNRR ed economia sociale tra sussidiarietà e innovazione”: questo il titolo del web talk che lunedì pomeriggio, in diretta sulla pagina Facebook di Vita, introdotti dall’onorevole Maria Chiara Gadda ha visto la ministra per la famiglia Elena Bonetti e il ministro per l’innovazione tecnologica e la transizione digitale Vittorio Colao dialogare con il Terzo settore (qui sotto è possibile rivedere l’incontro in versione integrale).
Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza insieme al Family Act, rappresentano una opportunità irripetibile per colmare i divari generazionali, di genere e geografici che da sempre hanno minato alla base la nostra competitività e la mobilità dell’ascensore sociale. Ma soltanto attraverso un rinnovato patto di fiducia tra società civile, pubblica amministrazione e settore profit saremo in grado di fornire risposta ai nuovi bisogni delle persone in termini di protezione sociale, crescita, e benessere. Il terzo settore è pronto? E chi governa? «Co-progettazione e co-gestione, con l’articolo 55, sono un caposaldo della Riforma del Terzo settore», ha sottolineato nell’introduzione Maria Chiara Gadda. «Il Terzo settore non è un attuatore passivo di politiche calate dall’alto. Noi per crescere come comunità dobbiamo condividere lo sguardo lungo che il Terzo settore ha, con il suo milione di lavoratori e i suoi 5,5 milioni di volontari, perché il Terzo settore non è solo luogo di riparazione ma anche il luogo in cui i giovani possono sviluppare le loro competenze professionali».
Denso l’intervento della ministra Elena Bonetti, che ha parlato della politica come forza che «attiva i processi». Una politica «che non può esimersi non solo dal riconoscere il Terzo settore, ma nemmeno dal convocarlo ad assumersi il ruolo di soggetto attuatore, di contributore, non solo nella partecipazione a un processo collettivo ma nell’assumersi la responsabilità di un mandato che non è sostitutivo né dello Stato né del privato ma nemmeno solo lo spazio di assistenza a fatiche e fragilità». La ministra in poche parole ha convocato il Terzo settore ad essere «educatore e non a caso uso una parola che tendenzialmente si usa per una persona»: il Terzo settore deve svolgere «un ruolo che non è solo di affiancamento alle famiglie o di sostegno alle comunità locali, poiché la sussidiarietà rinnovata dalla pandemia impone un modo nuovo di essere: una convocazione che non sia sedersi a un tavolo e portare la nostra parte, ma disegnare uno spazio nuovo», ha detto la ministra. Tre le parole che ha indicato per concretizzare questo nuovo compito della sussidiarietà: «connessione, processi e dati». Connessione che va di pari passo a co-progettazione, che non è solo offrire servizi: «I 135 milioni dati ai Comuni per progettare con il Terzo settore i servizi educativi per l’estate non sono un esercizio di riempimento»; processi perché il Terzo settore sia l’attivatore di processi territoriali che siano «non solo servizi volti a sanare le fragilità ma di un modello sociale nel quale economia, lavoro, finanza, cura, custodia, prossimità, educazione sono un unico racconto, che è il nostro vissuto. Il Terzo settore ha il vantaggio di una umanità integralmente riconosciuta e integralmente incontrata, è il momento che si metta a fare una delle gambe o una delle ruote di un modello più sostenibile e giusto ma anche con più concretezza». Terza parola i dati: «perché oggi l’incontro con le singole esperienze se rimane nella piccola comunità resta un punto della rete, senza attivare lo spazio dei processi. Il Terzo settore deve uscire dalla finalità delle risposte nell’immediato, per la finalità di scrivere una storia più grande».
La sussidiarietà rinnovata dalla pandemia impone un modo nuovo di essere: una convocazione che non sia sedersi a un tavolo e portare la nostra parte, ma disegnare uno spazio nuovo
Elena Bonetti
Il ministro Vittorio Colao, attribuendosi il ruolo dell’«idraulico digitale», ha sottolineato come la transizione digitale significa «creare opportunità sia per l’individuo sia per la comunità, perché il grande potere del digitale è nell’esaltare al tempo stesso l’individuo e il collettivo, è bello perché ci permette di non dover scegliere tra altruismo ed egoismo». Sul “cosa fare” Colao ha accennato alla banda larga dappertutto «non è solo le montagne ma anche periferie di città che non sono connesse», l’urgenza di collegare «le 9mila scuole e 12mila strutture sanitarie che ancora non sono connesse», l’arrivare in 5 anni ad avere il 70% della popolazione con un’identità e un domicilio digitale. In questo «dobbiamo prevedere – e lo sono – forme di coinvolgimento del Terzo settore nella formazione, un “servizio civile digitale” (il primo avviso è stato pubblicato il 12 maggio, ndr) con il coinvolgimento di onlus giù pronte a dare questo servizio, per andare a raggiungere le fasce di popolazione che naturalmente non sarebbero coinvolte: perché il digitale e democratizzante ma ha anche il potere di aumentare i divari, poiché se io salgo su un autobus che va veloce e qualcuno invece non ci sale… il divario aumenta», ha detto il Ministro. Quindi se l’infrastruttura sarà «poco o niente coprogettata, perché nel disegno non si può avere troppa diversità», il Terzo settore avrà poi un ruolo «molto importante nel guardare a iniziative sulle competenze, sulla formazione, sull’inclusione. In questo dobbiamo essere molto vicini al territorio e molto fini nell’intervento, io non credo qui ai grandi programmi dal centro. Dobbiamo trovare e far scalare piccole ma efficaci esperienze locali, faremo un “fondo per la Repubblica digitale”, per raccogliere le esperienze di formazione digitale diffusa sul territorio, senza perdere tempo a inventare nulla ma fare leva su ciò che già esiste e funziona». Pensando non solo agli anziani ma anche ai giovani, che sono e saranno sempre più «risorse scarsissime». Il successo della transizione digitale, quindi, starà in tre cose: «I soldi del PNRR, una visione condivisa del fatto che si deve portare tutti avanti, e il coinvolgimento del Terzo settore, dell’accademia, delle scuole a livello locale per capire come questi grandi investimenti possano andare a beneficio di tutti. Soldi, tecnologia e cuore delle persone: così i prossimi 5 anni saranno di svolta».
Il Terzo settore avrà poi un ruolo molto importante nel guardare a iniziative sulle competenze, sulla formazione, sull’inclusione. In questo dobbiamo essere molto vicini al territorio e molto fini nell’intervento, io non credo qui ai grandi programmi dal centro.
Vittorio Colao
Emiliano Manfredonia (presidente delle Acli) ha sottolineato la peculiare capacità del Terzo settore di lettura dei territori, per accompagnare gli enti locali nella sfida di non lasciare indietro nessuno. «Ho paura che più che transizione ecologica, economica e digitale sia una transumanza, in cui si torna da dove siamo partiti. La transizione invece ha bisogno di una conversione culturale, di un nuovo modello per tutta la società». Gabiele Sepio (Fondazione Italia Sociale) ha accennato all’ipotesi di «una struttura unica in grado di accompagnare il Terzo settore nella gestione dei finanziamenti, valorizzando i progetti che hanno un impatto a livello nazionale, con un fondo nazionale per l’investimento sociale, razionalizzando risorse che spesso oggi vengono frammentate e per cui c’è una oggettiva difficoltà di accesso (il Portogallo per esempio ha un fondo unico per la coesione sociale)». Altro aspetto è quello finanziario: «Il terzo settore se ha capacità di produrre deve anche avere accesso al finanziamento. Ci sono esempi per il credito sportivo, perché non partire da questo modello di credito anche per il Terzo settore?», ha chiesto Sepio. Stefano Granata infine (presidente di Federsolidarietà) ha ribadito che oggi non c’è più una domanda di welfare standardizzato e che di conseguenza ci vogliono risposte non standardizzate. Un esempio su tutti è quelo dei 2 milioni di Neet, a cui l’impresa sociale e la transizione digitale insieme possono offire un’occasione straordinaria di recupero, in termini di motivazione e di senso, con politiche attive del lavoro efficaci.
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