Economia
Il Terzo settore? Necessario alla politica industriale del nostro Paese
«Serve un'operazione di filiera: c’è un sistema di bisogni a cui rispondere, ci sono modelli imprenditoriali in evoluzione che contaminati con la tecnologia possono crescere e diventare opportunità di sviluppo imprenditoriale e c’è una finanza che è pronta a specializzare strumenti e modelli a sostegno di questa impresa. Questa è una sfida vera». L'intervento del docente di di Social Innovation, School of Management del Politecnico di Milano
Il riconoscimento dei soggetti del Terzo settore nell’alveo degli interventi a sostegno dell’economia [in questa fase 2 dell’emergenza Covid19, ndr] è un passaggio non solo importantissimo dal punto di vista concreto, ma anche di fondamentale importanza concettuale. A mio parere, ciò apre opportunità di sviluppo estremamente interessanti, nel contesto di un uso del Recovery Fund: un nuovo sistema di opportunità per l’industria italiana. Il senso del mio intervento è questo: una volta riconosciuti i soggetti di Terzo settore all’interno degli interventi a sostegno dell’economia, ora la grande sfida è quella di immaginare il Terzo settore come un soggetto attivo e un protagonista delle politiche industriali del nostro Paese.
Per fare questo ragionamento io partirei da dove eravamo. Noi a febbraio avevamo una situazione particolare per quanto riguarda la finanza e i modelli d’impresa. Era un momento in cui i grandi amministratori delegati delle corporation internazionali e i gestori dei fondi finanziari sembravano tutti “avere l’ansia” di dimostrare al mondo che dei problemi sociali, dei problemi ambientali e dei problemi climatici si sarebbero occupati loro, grazie a nuovi modelli di finanza. Dall’altra parte c’era un Terzo settore che improvvisamente cominciava ad accorgersi dell’esistenza di soggetti esterni, appartenenti al mondo profit, che dicevano di fare più o meno lo stesso mestiere che il Terzo settore aveva sempre storicamente fatto.
Poi è arrivata l’emergenza. Cos’è successo? Al Terzo settore è successo che di fatto si è spaccato in due rispetto alle difficoltà: un pezzo del Terzo settore si è trovato esposto in prima linea, con costi operativi e modelli di intervento forzatamente inefficienti perché appunto realizzati in condizioni di emergenza e su questo il Terzo settore sia nella sua parte imprenditoriale sia nella sua parte più di volontariato ha saputo rispondere egregiamente, ma certo un aumento forte dei costi di intervento ha messo in difficoltà finanziaria molte delle organizzazioni. Un’altra parte, l’altra metà del Terzo settore è rimasta ferma, forzatamente, e quindi ha avuto un serio problema sul fronte dei ricavi e delle entrate, a cui si è sommata la crisi delle entrate filantropiche che si sono giustamente polarizzate sui grandi problemi sanitari che stavamo vivendo. Quindi anche questo pezzo del Terzo settore è stato esposto a una crisi finanziaria che, come dirò, rischia un po’ di mettere a repentaglio alcuni pezzi fondamentali del nostro welfare.
A queste prime due cose a me sembra che l’impianto di misure messe in campo dal governo abbia risposto in maniera più che soddisfacente. Però sono successe altre due cose, ancora più interessanti, dinanzi a cui il Terzo settore (pur capace e a tratti eroico nell’esporsi per fronteggiare la crisi) si è trovato incapace o capace di fornire solo risposte deboli e non strutturate. Se vogliamo ripartire dobbiamo fare un’analisi anche un po’ critica e allora dobbiamo dire che un pezzo del Terzo settore – soprattutto quello imprenditoriale – ha tardato un po’ troppo l’appuntamento con le tecnologie, con la managerializzazione, con la capitalizzazione finanziaria, con la strutturazione finanziaria, con quelle operazioni di irrobustimento e di scala dimensionale che forse gli avrebbero consentito di rispondere in maniera più strutturale, robusta e di scala alle sfide che abbiamo attraversato. C’è stato cioè un problema di efficienza, di capacity building del Terzo settore di cui dobbiamo tenere conto: è una cosa che abbiamo imparato nella crisi.
Il quarto e ultimo elemento interessante, che è quello che ci proietta verso le politiche industriali e le politiche dell’innovazione, è quello che io credo sia nella penna dei più illuminati estensori del social economy action plan della Commissione europea: cioè il fatto che si sia aperto anche un sistema di opportunità. Un sistema di pezzi di nuovi business – chiamiamoli pure così, di nuove opportunità imprenditoriali che privilegeranno chi è nativamente sociale, chi è nativamente radicato nelle comunità, chi è nativamente capace di rispondere a obiettivi di impatto sociale insieme agli obiettivi ovviamente di redditività e di profitto. Sono qui famosi modelli ibridi che proprio la finanza sostenibile, la finanza che racconta e monitora il Forum della finanza sostenibile deve essere in grado di sostenere e in questo la finanza ovviamente ha un ruolo molto importante. Ed è molto importante che dentro la finanza chi studia questi fenomeni sappia dare i nomi giusti alle cose.
Significa sostanzialmente che non basta l’aggettivo “sostenibile”. La finanza che noi vogliamo accogliere nei nostri strumenti di politica economica (e aiutare) deve essere una finanza che interpreti la sostenibilità come vera forza trasformativa, una forza capace di innescare processi di cambiamento strutturale e quindi di assistere quelle forme imprenditoriali ibride e che provengono dal Terzo settore, che forse da domani potranno candidarsi credibilmente a cogliere opportunità di business e a disegnare nuove traiettorie di sviluppo economico del Paese.
Allora è chiaro che da queste quattro cose che sono successe al Terzo settore nella crisi derivano tre priorità politiche.
La prima è non perdere un pezzo di welfare molto importante per fronteggiare la crisi. Su questo il governo ha fatto tutto quello che doveva fare. Voi sapete che il sistema delle cooperative sociali gestisce il 60% degli asili italiani, se per caso saltasse il 20% delle cooperative sociali per ragioni finanziarie significa che avremo un 25-30% di asili che non riaprono e questo è un problema gigantesco in primis per il sistema produttivo del Paese. Quindi c’è una priorità politica, che era quella di non perdere un pezzo di welfare e io credo che su questo lo strumentario che il governo ha messo in piedi e che sta mettendo in piedi è più che adeguato.
C’è però una seconda e una terza priorità politica che ci aspetta da adesso in avanti. La seconda è quella dell’efficienza: mettere il Terzo settore e le sue organizzazioni nelle condizioni di rispondere in maniera più efficiente, di scala e strutturata ai problemi. Per dirla con una battuta rapidissima, io credo che sia stato un errore ai tempi in cui si è disegnata l’industria 4.0 non pensare a un’industria 4.0 del Terzo settore perché anche il Terzo settore ha un bisogno drammatico di efficientamento spicciolo attraverso le tecnologie, anche il Terzo settore è interessato a un processo di trasformazione digitale che ha una dimensione di efficienza e su questo io penso che andrebbe fatta una riflessione, ma ha anche una dimensione prospettica di lancio di nuove traiettorie di sviluppo. Il che significa sostanzialmente cogliere le opportunità del cosiddetto “sociale tech” e includere nel perimetro delle politiche industriali dell’innovazione anche soggetti del Terzo settore, perché non considerare i 18-20mila soggetti imprenditoriali del Terzo settore italiano, i 300mila soggetti del Terzo settore imprenditoriale, gli 82 milioni di volontari in Europa… Non si capisce perché non debbano essere soggetti attivi dell’innovazione, delle nuove traiettorie che andremo a disegnare in Europa e perché a loro non debbano essere destinate politiche specifiche.
Che cosa vuol dire questo in pratica? Dove stanno queste opportunità? Io credo che basti osservare alcune rotture di paradigma verificatesi in questi tre mesi, per esempio quelle nell’economia della cura e nei modelli di intervento territoriale. La domiciliazione della cura, il portare la medicina e l’assistenza sul territorio ha dei potenziali economici enormi e potenziali di innovazione enormi. Qui le imprese sociali – lo dico in senso a-tecnico – credo che abbiano un vantaggio enorme perché sono radicate nella comunità e possono essere esse stesse protagoniste attive di un’innovazione che è realmente tecnologica e industriale, che è innovazione vera, come direbbe qualcuno, e che dall’altra parte è compatibile con una generazione di un diverso modello di welfare che è un elemento imprescindibile delle politiche di sviluppo che dovremmo immaginare. C’èpoi la questione del Green New Deal, che è evidentemente è la traccia profondissima che l’Europa e il governo italiano stanno dando al Recovery Plan, però se il Green New Deal non verrà in qualche modo mediato dall’economia sociale avrà un serio rischio di un’ulteriore esplosione delle disuguaglianze.
Penso poi, li elenco rapidamente, al nuovo turismo di prossimità, alla distribuzione di cibo di ultimo miglio, ai nuovi modelli di abitare, all’agricoltura per il ripopolamento delle aree interne: sono tutte traiettorie che hanno in sé un enorme potenziale di sviluppo economico, sono politiche di sviluppo e politiche industriali in cui l’impresa sociale in senso esteso non può non giocare un ruolo centrale, perché è nativa di quel modello e quindi deve essere aiutata a scalare a modelli industriali veri, anche perché ha una potenzialità di contaminazione gigantesca verso l’impresa tradizionale.
Andate a vedere come opera Buurtzorg. È una impresa gigantesca olandese, che ha piccoli caregiver infermieri sul territorio: ha modelli tipici del Terzo settore ma con una piattaforma tecnologica riescono a condividere competenze, risorse finanziare, dotazioni tecnologiche e infrastrutturali e si comportano come una grande impresa. Questi sono modelli ibridi che nascono dalla contaminazione dell’economia sociale che cresce e del profit che si adatta: io credo debbano essere il centro delle traiettorie di sviluppo che noi ci immaginiamo.
Allora che cosa fare per considerare l’economia sociale e il Terzo settore come un soggetto attivo delle politiche di sviluppo industriali e tecnologiche del futuro? Si possono fare varie cose, per esempio io credo che si debba cominciare a considerare che tutte le misure di capacity building industriale, tutte le misure su ricerca e sviluppo, la nuova terza missione del sistema scientifico e degli atenei debba pensare a un trasferimento tecnologico dedicato ai soggetti del Terzo settore, perché solo così si immaginano modelli di nuova imprenditorialità compatibili con il contesto socio economico che avremo di fronte. Mi permetto di dire allora che c’è un certo sconcerto sull’affidamento a Enea della funzione centrale di trasferimento tecnologico, perché è molto importante che il social tech e il Terzo settore venga considerato come soggetto destinatario diretto delle politiche di trasferimento tecnologico che verranno fatte nel Paese. E poi il rafforzamento patrimoniale e la finanza di impatto: una “finanza radicale”, che non si accontenti di aggettivarsi di sostenibile, o verde, o etico-responsabile, ma una finanza che sappia essere intenzionale, misurabile e addizionale, cioè che sappia affrontare profili rischi-rendimento anche sproporzionati ma adeguati agli obiettivi trasformativi che vuole darsi.
Un’operazione di questo genere è un’operazione di costruzione di filiera: c’è un sistema di bisogni a cui rispondere, ci sono modelli imprenditoriali in evoluzione che contaminati con la tecnologia possono crescere e diventare opportunità di sviluppo imprenditoriale e c’è una finanza che è pronta a specializzare strumenti e modelli a sostegno di questa impresa. Questa è una sfida vera. Per dare il senso di quanto questa sfida sia importante, diciamo che ci sono 18-20mila imprese sociali in Italia e scommettiamo che con un po’ di attenzione al trasferimento tecnologico, al capacity building, al rafforzamento patrimoniale una su cento diventi un’impresa grande. Una su cento significa 200. Non sono tantissime, ma tutti gli incubatori universitari italiani rischiano di metterci cinquant’anni a farne 200 strutturate capaci di rispondere ai bisogni e con quei potenziali di crescita.
Naturalmente l’altra ragione importante è che tutto questo è coerente con le linee dell’Europa e ne ha ispirato il Social Economy Plan. Poter spendere fondi strutturali vecchi e nuovi per obiettivi di coesione emergenziale ad esempio è una tipica opportunità che si può cogliere con questo modello. Le 20mila imprese sociali italiane sono radicate spesso in pezzi di territorio che l’economia della conoscenza ha completamente abbandonato, polarizzando opportunità, ricchezza e competenze in pochissimi luoghi. Allora in quei pezzi di territorio che sono completamente sfuggiti a ogni obiettivo di coesione, le uniche reti imprenditoriali che sono rimaste sono le reti del saper fare, diciamo le reti dell’artigianato, le reti del commercio. Allora fare una politica di trasferimento tecnologico, di capacity building, di rafforzamento patrimoniale per l’impresa sociale significa rafforzare modelli imprenditoriali anche capaci di generare un welfare trasformativo proprio in quei pezzi di territorio che l’economia della conoscenza si è persa per strada. Io credo che una delle ragioni più importanti per fare questa operazione, che dall’economia proietta l’attenzione all’imprenditorialità sociale verso politiche di sviluppo industriale e di innovazione, è perché è anticipatorio di futuro. Il mondo dell’impresa tradizionale è destinato a trasformarsi e questo non potrà che aprire nuovi modelli di impresa che sarebbe utile anticipare sfruttando plausibilmente dei pezzi di codice genetico che sono molto radicati nel Terzo settore.
Un’ultima parola sulla finanza. La finanza sostenibile in realtà è fatta di due grandi pezzi in questo momento: c’è un avamposto di pionieri che ha sviluppato modelli a impatto, molto forti, molti trasformativi, di finanza veramente generativa e c’è tutto un processo di adattamento che è quello della finanza tradizionale che è quello degli ESG, della finanza diciamo valoriale che per le ragioni più diverse – protezione dei rischi, reputazione e opportunismo – si sta trasformando. Allora la cosa importante è che in questo momento quella finanza che ha saputo essere trasformativa e generativa contamini questa grande migrazione verso la sostenibilità della finanza tradizionale e la contamini in un modo che sia una finanza che cessi di essere puramente estrattiva, ma che si metta al servizio di questo modello di trasformazione che ha al centro sì il contrasto ai problemi ambientali climatici, ma anche il contrasto delle diseguaglianze.
Sintesi a cura di vita.it dell’intervento svolto in occasione del primo incontro della II edizione di “Cantieri ViceVersa – Network finanziari per il Terzo Settore”, organizzato da Forum del Terzo Settore e Forum per la Finanza sostenibile.
Cosa fa VITA?
Da 30 anni VITA è la testata di riferimento dell’innovazione sociale, dell’attivismo civico e del Terzo settore. Siamo un’impresa sociale senza scopo di lucro: raccontiamo storie, promuoviamo campagne, interpelliamo le imprese, la politica e le istituzioni per promuovere i valori dell’interesse generale e del bene comune. Se riusciamo a farlo è grazie a chi decide di sostenerci.