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Il Terzo settore? Ha bisogno del community organizing
«La costruzione di un potere relazionale responsabile rappresenti uno strumento indispensabile per trasformare non solo le istituzioni, ma anche l’impatto e le pratiche operative delle organizzazioni del Terzo settore». Prosegue il dibattito lanciato su VITA da Giuliano Amato con l'intervento a tre mani del presidente Associazione Community Organizing, del presidente Associazione 21 luglio e della lead organizer del progetto Periphery Organizing
Vogliamo ringraziare Vita per aver promosso il dibattito aperto da Giuliano Amato sulla responsabilità politica del terzo settore e dare un nostro contributo con l’intenzione di non restare su sole affermazioni di principio e di non evitare i nodi più scomodi. Per fare questo parleremo di noi, di quello che facciamo in quanto attori del terzo settore, e non puri osservatori. E partiremo dal nodo che nessuno vuole nominare, quello del potere.
Come ha scritto Michael Gecan, l’ex co-direttore dell’Industrial Areas Foundation, l’organizzazione fondata nel 1940 dall’inventore del community organizing, Saul Alinsky, ci sono tre culture pubbliche prevalenti entro cui si muove il terzo settore, tutte e tre legittime e necessarie, ma la terza, come cercheremo di dimostrare, è quella meno conosciuta e percorsa.
La prima cultura pubblica è quella che Anna Lisa Mandorino chiama «amministrazione» e Marco De Ponte «strumento esecutivo». Questo è l’approccio prevalente, che porta ad amministrare e gestire progetti o servizi diretti alla persona. La seconda è la cultura della mobilitazione, quando numeri più o meno grandi di persone scendono in piazza o firmano una petizione in risposta a una crisi, e spesso altrettanto velocemente finiscono nel dimenticatoio finita l’attenzione mediatica.
La terza cultura pubblica, nominata nel suo intervento da Marco De Ponte, è quella del community organizing, che ci concentra su come la società civile può costruire un potere «consistente e persistente», distinto e autonomo da quello dei partiti e del mercato, grazie alla risorsa principale a cui ha accesso: le relazioni.
Fa parte di quel «complesso di inferiorità politica» che si unisce a un «complesso di superiorità morale», come lo dipinge bene Giovanni Moro, l’equiparare l’esercizio del potere a qualcosa di necessariamente compromettente e corrotto. Primo perché il terzo settore già esercita un potere, nel momento in cui riesce a coinvolgere milioni di persone e raccogliere importanti risorse. Secondo, perché non porsi il problema di come accrescere ed esercitare al meglio il proprio potere porta spesso il terzo settore a rinchiudersi nei propri progetti, senza immaginare processi di cambiamento di natura sistemica.
Un importante community organizer statunitense, Ernesto Cortés, ha scritto che «mentre poche persone vogliono apparire affamate di potere e corrotte, quello che dobbiamo realizzare è che anche l’impotenza corrompe, forse in modo più pervasivo del potere». Quando Giuliano Amato descrive il populismo come «un efficace fattore aggregante che soffia sulle delusioni e unisce all’insegna di sentimenti contro», o quando Marco De Ponte parla di «cooptazione (quando va bene) in processi dal discutibile impatto decisionale (del quale molti leader del Terzo settore stesso si accontentano)», o ancora quando Giovanni Moro parla del «meccanismo di compensazione e ricompensa, per mera affiliazione, ma senza riconoscimento di spessore politico al gruppo sociale» che spesso il Terzo settore accetta dalla politica, ci sembrano tutti indicare come il senso di impotenza possa in alcune occasioni portare cittadini e società civile, al di là delle loro intenzioni, ad agire in modo inefficace, se non contrario al bene comune.
L’alternativa al senso di inferiorità politica è la costruzione di quello che nel community organizing viene definito «potere relazionale», in opposizione al «potere dominante». E non bisogna necessariamente andare negli Stati Uniti per trovare chi possa incarnare questa cultura pubblica. È stato Danilo Dolci, organizzatore di comunità ante litteram negli anni ‘50 in Sicilia, a scrivere che «un sano potere non è in antitesi con la natura», che «il potere personale o di gruppo valorizza la propria forza vitale in collaborazione con l’altro», mentre «il dominio è la malattia del potere», e che quindi «non si può realizzare una società civile senza imparare a distinguere forza–potere da violenza–dominio».
Per spiegare come nella tradizione del community organizing questo potere relazionale possa prendere forma, vogliamo partire da un caso concreto che ha portato il Comune di Roma a un cambiamento significativo di politiche pubbliche sotto la richiesta e pressione diretta di un’organizzazione del terzo settore che ha scelto di porsi al servizio del potere di agire di una comunità locale.
L’esempio in questione è l’azione integrata di advocacy della baraccopoli dell’Area F di Castel Romano supportata dall’Associazione 21 luglio, che ha visto la Giunta Raggi accogliere la proposta delle famiglie dell’Area F e replicare su Roma il modello di intervento praticato a Ferrara nel settembre 2019 attingendo dalle “riserve ERP” a sua disposizione per il collocamento delle famiglie in condizione di emergenza abitativa nelle abitazioni di Edilizia Residenziale Pubblica.
Questa campagna ha tentato di seguire diversi principi del community organizing, e riteniamo che è anche per questo che è risultata efficace.
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“Non fare mai per gli altri quello che potrebbero fare da soli”. La chiamano la legge di ferro del community organizing. Va contro ogni paternalismo, anche se ben intenzionato. Le persone che vivono il problema sulla loro pelle sono quelle che guidano il processo.
Nell’agosto del 2020 Carlo Stasolla, venuta a sapere del preavviso di sgombero, ha tenuto diverse assemblee con gli abitanti dell’Area F e chiesto alle e ai leader della comunità cosa volessero fare. Ne è nata una lettera aperta alla Sindaca Raggi firmata dalla comunità dell’Area F.
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Trasforma la protesta in proposta. I community organizer fanno notare come i problemi siano irrisolvibili fintanto che non vengono tradotti in una richiesta chiara. Per farlo occorre un’opera di ricerca e una strategia.
La precisa richiesta alla giunta comunale da parte degli abitanti di quel campo i è stata: sospendere lo sgombero e procedere all’assegnazione della quota di immobili ERP destinata alle persone in condizione di emergenza abitativa, richiamandosi al precedente della giunta leghista di Ferrara. Una disposizione di legge in grado di obbligare l’amministrazione ad agire che senza un’attenta ricerca non sarebbe stata conosciuta.
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Crea il potere di agire. Nel community organizing, il potere viene prima degli obiettivi. Per creare potere relazionale occorre poter contare su una propria base di persone organizzate, ma anche su alleati.
È stata realizzata una vera e propria “mappa del potere” per individuare i potenziali alleati, gli stakeholder da coinvolgere e gli ostacoli che avrebbero potuto incontrare per raggiungere il loro obiettivo. Parroci, consiglieri comunali, associazioni di volontariato, giornalisti, etc.
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Analizza il potere. Nessun cambiamento sarà mai attuato dai “politici”, o dal “comune”, né dalle “istituzioni”. Come insegna Saul Alinsky occorre “personalizzare”, individuare il target di un’azione, la singola persona che ha il reale potere di dire sì o no alla nostra richiesta specifica.
In termini di analisi del potere, l’Associazione 21 luglio ha prima di tutto effettuato una valutazione legale dalla quale emersa la duplice violazione di normative comunitarie e nazionali che lo sgombero in piena pandemia configurava. In questo passaggio, un ruolo decisivo è stato svolto dal corto-circuito istituzionale che l’Associazione 21 luglio è riuscita a far emergere chiedendo un parere legale sulla legittimità dello sgombero a un’agenzia statale, l’UNAR, che ha dichiarato l’illegittimità dello sgombero. Si è venuta a creare così una situazione di fatto e di diritto nella quale un target secondario (UNAR) ha esercitato la propria influenza sul target primario chiamato a decidere sullo sgombero: la sindaca di Roma.
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Se necessario, usa il conflitto. Il conflitto non è fine a se stesso, ma serve spesso perché il target di una richiesta scenda a compromessi e accetti di riconoscere il ruolo della società civile in una negoziazione.
In chiave strategica, è risultata centrale la visibilità che la vicenda dello sgombero ha ottenuto in seguito alla visita che alcuni parlamentari hanno fatto all’Area F nel luglio del 2020: la presenza dei giornalisti ha permesso di documentare la negazione della prerogativa del diritto di visita che i parlamentari si sono visti opporre inizialmente dalle forze dell’ordine.
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L’azione è nella reazione. Come ha scritto il community organizer Edward Chambers, “non è tanto importante ciò che facciamo quanto quello che l'altra persona fa o come il mondo fisico ci respinge. La nostra azione mette in moto la loro reazione, e allora è nostro compito utilizzare quella reazione per intraprendere la nostra prossima azione”.
L’azione che la comunità dell’Area F ha deciso di mettere in atto per chiedere che venisse dato seguito alla propria richiesta di assegnazione degli immobili ERP, è stata organizzare una manifestazione in Campidoglio il 31 agosto 2020, chiedendo e ottenendo che la lettera alla Sindaca venisse protocollata. In questo caso, la reazione dell’amministrazione capitolina è stata sospendere lo sgombero dell’Area F.
Utilizzando questo primo risultato, la vittoria finale di quest’azione integrata di advocacy è arrivata nel febbraio scorso, quando con l’ordinanza n. 25 la Giunta Raggi ha proceduto all’assegnazione di alloggi ERP ai primi 15 ex abitanti dell’area F. Nel giugno 2021 si è completata l'assegnazione e tutte le famiglie dell'Area F sono entrate in casa popolare
Nella Città di Roma nell’ottobre 2021 si andrà al voto e il tema del superamento delle baraccopoli abitate da cittadini rom e non rom, che insistono nella città da almeno 30 anni, rappresenterà uno degli argomenti chiave della campagna elettorale. Facendo tesoro della sua decennale esperienza e di questa recente vittoria, l’Associazione 21 luglio ha redatto l’Agenda politica “Superare i campi rom? Si può fare!” che è stata presentata ai principali candidati a sindaco di Roma, suscitando grande interesse e ottenendo riscontri positivi bipartisan. L’Agenda, oltre a colmare un diffuso vuoto di conoscenza e analisi, fornisce strumenti operativi basati sul community organizing per coinvolgere le comunità residenti negli insediamenti e nei quartieri che li ospitano.
Tuttavia, la collaborazione tra le nostre associazioni vuole spingersi oltre, e portare la capacità di intervento sistemico maturata per la questione rom e baraccati, sul fronte della trasformazione di uno dei quartieri simbolo delle periferie romane, Tor Bella Monaca, dove le nostre associazioni già operano attraverso il progetto di rafforzamento della comunità educante Periphery Organizing e la gestione del Polo Ex Fienile.
Siamo convinti che la costruzione di un potere relazionale responsabile rappresenti uno strumento indispensabile per trasformare non solo le istituzioni, ma anche l’impatto e le pratiche operative delle organizzazioni del terzo settore. Che il luogo in cui contribuire a costruire questa nuova cultura pubblica di partecipazione siano le città e i contesti locali, come scrive Angelo Moretti. E che questo tipo di azione politica debba confrontarsi non tanto con i manifesti, i principi astratti, e neanche le leggi che vorremmo, ma lo spazio da sempre trascurato dell’implementazione delle politiche pubbliche, dei servizi pubblici locali, e del funzionamento della burocrazia. Quello che Giovanni Moro, sapientemente, chiama «lo spazio dove le cose devono accadere, per lo meno le cose che mostrano il volto quotidiano della democrazia».
*Diego Galli, presidente Associazione Community Organizing
**Carlo Stasolla, presidente Associazione 21 luglio
***Maria La Porta, lead organizer del progetto Periphery Organizing finanziato dall’impresa sociale Con i bambini
In cover la Manifestazione in Campidoglio del 31 agosto 2020
Photo by Maria La Porta
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