Mondo

Il terrore attacca i nostri valori. Già, ma quali?

L’editoriale di Riccardo Bonacina sul nuovo numero di Vita (in edicola da venerdì 4 dicembre) si interroga sul mantra che, dopo Parigi, ci ha accompagnato ogni giorno. Ma quando parliamo dei nostri valori di cosa parliamo? Ecco una risposta. Dal Salmo 8 al piatto di minestra…

di Riccardo Bonacina

Tutti Charlie Hebdo ieri, tutti Enfants de la Patrie oggi. Il mantra dell’attacco ai “nostri valori” e al “nostro stile di vita”, rimbalzato sui social network e poi ripetuto dai media allo spasimo, ha costruito una retorica che ha fatto argine alla paura, confermandoci che siamo nella parte buona del mondo e ha rafforzato un meccanismo di rimozione della realtà. Ma questo non basta a vincere la tensione e il disagio di fronte a una realtà che ci propone quotidianamente il prolungarsi di stati di emergenza (in Francia) o addirittura di veri e propri “coprifuoco” (a Bruxelles). Mentre sulla Siria si scatena una pioggia di bombe i cui effetti potremo comodamente seguire sulle nostre domestiche “war room” formato desktop e smartphone. Sperando che l’intensificarsi delle azioni di guerra non provochi nessun effetto collaterale talmente tragico da distoglierci dal nostro “stile di vita”. Talmente libero da non dover davvero più scegliere nulla.

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Di fronte a una realtà così drammatica possiamo limitarci ad esibire una bottiglia di champagne? Quando invochiamo i nostri valori di cosa esattamente parliamo? Noi europei smarriti e sgomenti del XXI secolo sapremo ritrovare e riscoprire la nostra stessa anima? Il respiro che ci proviene dai nostri progenitori e dai secoli drammatici che ci hanno preceduto? L’Europa stessa saprà riscoprire gli ideali da cui è nata? Saprà ritrovarsi sotto la cenere burocratico affaristica che la ricopre e la somma di egoismi individuali, finanziari e nazionali che le hanno fatto negare le sue radici? L’Europa incarna ancora quegli ideali? E quanto abbiamo già tradito con le nostre pratiche questi valori, producendo disuguaglianze insostenibili che alimentano il terrorismo, svilendo la democrazia, lucrando sul traffico d’armi, lasciando morire innocenti sulle rotte dei migranti in fuga da guerra e povertà, dissipando legami sociali e disperdendo un bene prezioso come la fiducia? Dobbiamo avere il coraggio di nominare le nostre radici, non per farne un altare, non per rivendicarle, ma per interrogarle, per capirle. Interrogarle con le domande che il nostro tempo suscita, capirle per capire chi siamo.

In queste settimane, sono riandato al Libro dei Salmi. Un libro che si costruisce dal mille a. C. in giù, sino al 300 a. C., un libro centrale per gli ebrei e per i cristiani, lì sta tutta la sapienza sedimentata nei secoli in forma di canto e di poesia. Ho riletto il Salmo 8 che pone quella che a mio parere è “la” domanda: “Che cosa è mai l’uomo perché di lui ti ricordi, il figlio dell’uomo, perché te ne curi?”. Che cosa è mai l’uomo? È la domanda che il Salmo lancia in faccia al mistero, è una domanda piena di stupore e insieme di attesa. Una domanda che risuona per secoli, nell’arte, nella letteratura, nell’architettura, nelle università, persino nelle case e nelle discussioni tra generazioni, ma oggi? Qual è il posto di questa domanda che risuona anche nell’Amleto di Shakespeare: «Che capolavoro è l’uomo, così nobile nella ragione, così infinito nelle facoltà e per forma e moto così perfetto e ammirevole, e nell’azione così simile a un angelo, e a un Dio nell’intelletto: lui, la bellezza del mondo… però cosa è per me questa quintessenza di polvere?». Cosa è per me l’uomo? Facciamo ancora i conti con la nostra grandezza e insieme con la nostra infinita piccolezza?

Su consiglio di un amico sono andato a rileggermi I Persiani la prima grande tragedia di Eschilo (472 a. C.). Racconta la guerra dei persiani contro i greci, l’attacco della loro flotta ad Atene, racconta della battaglia di Salamina a cui Eschilo partecipò nel 480 a. C. e della non preventivabile vittoria degli ateniesi. Ne “I Persiani”, la Regina Atossa, moglie di re Dario e madre di Serse che guida l’assalto ad Atene, stupita della disfatta del più grande esercito e flotta al mondo chiede rabbiosa al corifeo: “Chi regge quelle truppe? Hanno un despota? Chi è?”. E il corifeo “No, non c’è nessuno a cui siano schiavi o sudditi”. La Regina non si dà pace e chiede “Ancora invitta (non vinta) è la città di Atene?”. E il Messaggero “Quando ci sono gli uomini, si è salvi”. Quando ci sono gli uomini si è salvi, uomini non sudditi o schiavi. Una constatazione grandiosa. Ma chi forma uomini liberi oggi, dove l’uomo cresce trovando se stesso e il suo volto più umano? Chi si cura di formare uomini così?

Ebraismo, civiltà greca e poi il Cristianesimo, quello delle Beatitudini nel discorso della montagna (Matteo, 5), discorso che Gesù pronunciò guardando in faccia il centro del potere di allora in Galilea, la città di Tiberiade e il Palazzo di Erode, lui su una sponda del lago e la nera città del potere dall’altra. Una sequenza di qualità umane in grado di sovvertire ogni ingiustizia, ogni superbia, ogni violenza. “Beati gli afflitti, Beati i miti, Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, Beati i misericordiosi, gli operatori di pace, i perseguitati a causa della giustizia”. Noi veniamo da lì, da quel respiro millenario capace di confrontarsi e persino duellare con l’eterno e con ciò che è più profondo e misterioso in noi. Una storia capace di confrontarsi con l’infinito e il finito, una storia con i suoi abissi di bellezza ma anche di male, ma sempre drammatica perché in questione è sempre stata la libertà e la ragione dell’essere uomo. Viene da lì anche il triplice motto della Rivoluzione francese, Liberté, Égalité, Fraternité. Motto tradito quotidianamente o presto dimenticato come l’invito alla fraternità.

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Di tutto questo, e di molto altro ancora, dovremmo parlare quando parliamo dei nostri valori, dovremmo sentire il ribollire di questa storia che è giunta sino a noi. Ma perché questo accada bisogna farla finita con il politicamente corretto e il multiculturalismo che vorrebbe cancellare ogni differenza. La convivenza vive nel confronto, le identità si formano nell’incontro, e l’incontro si nutre di attrattiva. Certo, bisogna essere all’altezza di questa sfida, e per farlo bisogna impegnarsi, studiare, incontrare. Quando il Presidente della Repubblica Mattarella e il presidente del Consiglio Renzi dicono, negli stessi giorni in cui altri governanti parlano di rappresaglie, di guerra o di coprifuoco, che 
la sfida la vinceremo se vinceremo la sfida educativa nei prossimi vent’anni non sono folli, dicono l’unica cosa sensata.

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Ma a giocare questa sfida non può essere un governo ma siamo tutti noi. Tutti abbiamo ogni giorno la responsabilità di costruire una socialità più umana andando incontro all’altro. L’altro quando diventa “tu”, un nome, è la chiave che continua ad aprire il cuore di molti. Anche in maniera sorprendente e creativa. Attraverso gesti quotidiani e semplici. Come ci ha raccontato Paolo Branca: «Un rifugiato pakistano, giunto stremato nel nostro Paese, la sera nel Centro di accoglienza, prima di cena, viene interpellato da un volontario che chiamandolo per nome, gli chiede se preferisce mangiare pasta in bianco o al sugo, carne o pesce. Lui scoppia in lacrime. Tutti allibiti gli chiedono il motivo di una simile reazione. Continuando a piangere ha allora raccontato degli anni trascorsi in un paese del Golfo, dove il suo padrone, anch’egli musulmano, non l’aveva mai chiamato se non “animale” o “somaro”, e dove aveva sempre e solo potuto sfamarsi con una ciotola di riso. Ora, tra gli infedeli, qualcuno lo chiamava finalmente col suo nome e gli chiedeva addirittura cosa volesse scegliere dal menu. “Questa gente potrà mai andare all’inferno?” è stata la sua emblematica domanda finale, che dovrebbe ricordarci cosa c’è veramente nei piatti di minestra che condividiamo!». Basta condividere una minestra!

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