Non profit

Il summit senza i grandi inquinatori?

Copenhagen, Usa e Cina ancora in forse

di Martino Pillitteri

Ci saranno 192 delegazioni e una sessantina di premier e capi di Stato. Ma al summit delle Nazioni Unite sul clima in programma dal 7 al 18 dicembre a Copenaghen non hanno ancora confermato la loro presenza i grandi “inquinatori” globali come Stati Uniti, Cina e India.


 I lavori sono tecnicamente conosciuti come Conference of the Parties to the United Nations Framework Convention on Climate Change (UNFCCCC). Lo scopo del vertice è quello trovare un accordo di massima che definisca un nuovo trattato mondiale sul clima in grado di sostituire il protocollo di Kyoto del 1997 in decorso nel 2012 e rettificato solo da pochi paesi. A Copenaghen  si chiude quel primo round di colloqui, di proposte, di studi, di negoziati, di aspettative  impostato due anni fa al summit sul clima tenutosi a Bali. In quell’occasione, i governi partecipanti decisero di lavorare congiuntamente a un nuovo accordo sul clima. Il summit di Copenaghen di dicembre segna la fine del biennio di lavoro e ri-pone le basi per il lavoro futuro.

Sui risultati conseguiti in questi due anni non c’è tanto da raccontare. Anche nei confronti delle tante aspettative e al fiume di parole sugli  obiettivi che usciranno dal vertice in Danimarca, molto probabilmente seguiranno pochi fatti concreti. Secondo la Bbc, i paesi sviluppati si sono resi conto che un accordo chiaro e legalmente vincolante per gli Stati sia impossibile da raggiungere. Sono troppi, infatti, la miriade di dettagli ancora irrisolti. Per quanto riguarda gli Stati Uniti poi, essi non sono in una posizione, sempre secondo la Bbc, di impegnarsi nel raggiungimento di obiettivi specifici come la riduzione delle proprie emissioni o di offrire sostegno finanziario ai paesi in via di sviluppo per investire in tecnologie e energie pulite. Quello che potrebbe uscire dal summit di Copenaghen è un accordo politico di massima che rimanda la decisione legale a un altro summit da tenersi entro la fine del  2010.

Un anno in più o un anno in meno sono, tradotti nelle prassi e nella tempistica della politica, tempi ridicoli. Per altri addetti ai lavori come il WWF, 12 mesi in più per iniziare a raggiungere un accorso è un lusso che il mondo non si può permettere. Le diverse regioni del mondo e gli ecosistemi sono vicini al raggiungimento di soglie climatiche limite  – detti anche punti critici, tipping point – che potrebbero provocare cambiamenti ambientali, sociali ed economici devastanti. E’ quanto emerge dal nuovo rapporto del WWF e Allianz lanciato oggi in tutto il mondo. Il rapporto (vedi allegato) “Major Tipping Points in the Earth’s Climate System and Consequences for the Insurance Sector”  (Principali punti critici nel sistema climatico della terra e conseguenze per il settore assicurativo) sostiene che i cambiamenti dovuti al riscaldamento globale sono propensi ad essere improvvisi ed imprevedibili – e potrebbero creare enormi problemi sociali e ambientali costando al mondo centinaia di miliardi di dollari.
 
Senza un’azione immediata è molto probabile che l’innalzamento del livello del mare sulla costa est degli Stati Uniti, la siccità in California, il blocco del monsone estivo in India e in Nepal o la scomparsa della foresta amazzonica colpiranno centinaia di milioni di persone e costeranno centinaia di miliardi di dollari. Il rapporto studia l’impatto dei tipping point, incluse le conseguenze economiche e le implicazioni per il settore delle assicurazioni. Dimostra, inoltre, quanto il pianeta sia vicino ai “punti critici” in molte regioni del mondo, ossia siamo pericolosamente vicini a fare pendere la bilancia verso il disastro. Le temperature globali sono già cresciute di almeno 0,7 gradi centigradi. È probabile un riscaldamento di 2-3 gradi nella seconda metà del secolo, a meno che non vengano attuati prima del 2015 sforzi estremamente radicali e determinati per tagliare le emissioni.

Con queste premesse, e con queste urgenze, le prime dichiarazioni sulle  aspettative e sulle buone intenzione di alcuni capi di Stato, come quelle del primo ministro inglese Gordon Brown «si raggiungerà un accordo solo se i leader partecipanti metteranno in gioco la oro reputazione» e quelle del premier australiano Kevin Rudd «ogni nazione con le mani sporche che partecipa al summit non dovrebbe ostacolare l’esito dei lavori. Noi vogliamo essere parte della soluzione» per ora hanno solo un valore puramente ambientalista mediatico corretto. L’Australia, è attualmente il più grande esportatore di carbone al mondo e vanta il più alto tasso di emissioni trai paesi sviluppati. E fino a prova contraria è ancora parte del problema.




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