Mondo
Il sogno americano
Muccino lascia le inquietudini dei teenagers per ricostruire la figura di un padre che lotta per dare a sé e a suo figlio quel diritto alla felicità che USA riconosce per Costituzione
M entre Lars von Trier abbandona il dramma e si dà alla commedia con Il grande capo (accademica ma divertente), Gabriele Muccino lascia le inquietudini tenerelle degli innamorati capitolini per cercare di aggredire quelli che secondo lui sono i grandi temi del nostro tempo: la povertà dietro l?angolo (e anche davanti), la voglia di diventare qualcuno, la determinazione che aiuta, la chance a lungo inseguita, il successo finale. Il tutto condito in salsa molto ma molto americana. Ovvero con quel misto di buon pathos d?antan e distacco ye-ye che consente di dare un?apparenza realistica. Non a caso il film inizia con una scritta che vorrebbe essere eloquente e definitiva: «Ispirato a una storia vera». Come a dire: non date spazio al diavolo maligno della supponenza razionale, perché questa vicenda è davvero accaduta. Cautela fuori luogo (oltre che devoto, devotissimo omaggio al bon ton stelle-strisce). Non c?è niente che garantisca di meno circa la credibilità di un film che assicurare lo spettatore della presunta veridicità del soggetto. Chissenefrega? Cioè per dirla in linguaggio più elegante: non basta.
Non è sufficiente resuscitare il buon Frank Capra (con la complicità della sceneggiatura di Steve Conrad) per convincere oggi della validità di quel medesimo sogno americano. Perché il sogno come era inteso cinquant?anni fa è appassito. L?età dell?innocenza, per dirla con Scorsese, è finita da un pezzo e forse non era neanche così innocente. Per farla rivivere non basta un massiccio ricorso alle semplici, chiare, ?oneste? buone intenzioni (mettendo al momento giusto un?inquadratura della fotografia di Kennedy o citando la Costituzione americana). Se non si è in grado di aggiungere altro, di fare riflessioni più articolate, l?operazione sembrerà furbetta, più realista del re, e saprà di stantio, di naftalina, di difesa a oltranza. Di pervicace ma tardiva consolazione. E questo potrebbe anche spiegare l?affetto che il pubblico americano sta dimostrando a questo film. Fa piacere a tutti essere coccolati?
Ma anche sul piano della realizzazione questa pellicola, girata con una fattura professionale e con stile piuttosto mediano (cioè anonimo), lascia perplessi. La macchina si muove come deve; i punti di vista sono i consueti; né mancano lentezze e insistenze. Come pure non manca la ricerca (sempre ad effetto) di momenti topici, sottolineati dalla voce fuori campo del protagonista, un Will Smith che riesce a essere comunque bravo.
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