Sostenibilità

Il sociale come rigeneratore di valore: opportunità e sfide per banche, impact investors e filantropia

«Il sociale sta cambiando l’economia e il modo di produrre valore, perciò dobbiamo attrezzarci per un nuovo paradigma dove peseranno maggiormente la coesione e la sostenibilità». L'intervento di Paolo Venturi pubblicato nel report relativo al Forum sul Terzo Settore “Il valore sociale nell’era della rivoluzione digitale” promosso dalla Fondazione EY

di Paolo Venturi

Il tema del “sociale” che produce valore, nella storia ha avuto declinazioni diverse. Noi oggi non parleremo del “sociale” che definisce la sua identità nella “non lucratività” della sua attività, del sociale che viene categorizzato a partire da ciò che non è, ossia un soggetto che non deve produrre profitto.


Fra l’altro questo è un errore enorme perché il divieto non è nel far utili ma nel ridistribuirli, ma approfondiremo quella visione che identifica la socialità nel “valore prodotto dalle relazioni”. Oggi parleremo del valore sociale di organizzazioni che generano soluzioni, che alimentano comunità, legami, e quindi capaci di dare risposta tanto ai bisogni dei cittadini quanto alle loro aspirazioni.

Innanzitutto occorre ricordare che “il sociale” per essere autentico deve trovare coerenza fra mezzi e fini. In altri termini, per le organizzazioni orientate all’interesse generale “il come” è importante tanto quanto il “perché”. È pur sempre vero che la socialità trova il suo ancoraggio nel fare comunità e nell’erogazione di servizi meritori ma oggi, è nella creazione di valore (anche economico) che è possibile osservare il nuovo ruolo delle istituzioni non orientate al mero profitto. In altri termini la molecola della socialità è parte integrante della formula per generare “valore aggiunto”.

Il sociale che crea valore non è una cosa recente, ma è parte del DNA della storia del nostro Paese. Fino alla fine del 1700 il sociale e l’economico erano in qualche modo legati, la dimensione espressiva e la dimensione strumentale di un’azione convivevano in armonia, così come l’utilità e la felicità (principi oggi separati). Dopo la rivoluzione industriale il paradigma che si è affermato prevedeva che la produzione della ricchezza fosse affidata ad alcuni soggetti (le imprese for profit), la ridistribuzione allo Stato, lasciando così alle organizzazioni non profit una funzione residuale, di nicchia. Il sociale esce così dal mercato e viene confinato nella sfera della responsabilità dell’impresa, nell’agire gratuito dei cittadini (volontariato) e nella filantropia.

Oggi assistiamo ad una riemersione di temi e valori che nella storia economica erano stati in maniera colpevole accantonati. Il superamento di questa visione lo si può osservare nel diverso ruolo che ricopre “il sociale”: non più effetto o esternalità della produzione, ma bensì come premessa. Se passiamo infatti da un’idea legata “all’estrazione di valore” o alla sua mera contabilizzazione, ad una che si focalizza sulla “generazione del valore” (su questo tema M. Mazzucato ha recentemente scritto un libro molto bello “The value of everything”) scopriamo come oggi non possiamo omettere, nella definizione di una strategia economica di lungo periodo, la dimensione sociale. In altri termini l’efficienza è necessaria ma non più sufficiente per costruire la competitività e la sostenibilità. Questo è il vero passaggio: il sociale inteso come qualità del valore, sostenibilità, cura dei propri stakeholder (tema già anticipato da Porter e Kramer quando parlavano di valore condiviso) non è più un’esternalità o un effetto dell’azione economica, né tanto meno un elemento che può essere usato unicamente per sanare i “fallimenti” dello Stato e del Mercato.

Il sociale è un elemento che entra dentro la “value chain” delle imprese. Il valore è perciò l’esito di una “conversazione” fra la dimensione economica e quella sociale. Il tema della competitività si genera quindi nella convergenza fra la socialità (intesa come senso e fine dell’azione) e l’imprenditorialità. La socialità alimenta il fare impresa e il rischio dell’imprenditore, inteso come colui che genera valore aggiunto. L’avvicinamento del sociale, in tutte le sue forme, alla dimensione imprenditoriale sta creando una nuova generazione di istituzioni: una terra di mezzo popolata da imprese “intenzionalmente sociali” (es. Imprese Benefit) e da organizzazioni non profit “intenzionalmente imprenditoriali” (es. Associazioni che assumono la qualifica di impresa sociale). Questa convergenza sta alimentando due effetti oggi ben visibili. Il primo ha a che fare con la ridefinizione del concetto di efficienza.

La razionalità economica ha sempre misurato l’efficienza nell’ottimizzazione dei processi e nell’allocazione ottimale delle risorse in funzione della massimizzazione del profitto. Se oggi assumiamo, come detto in precedenza, che il sociale fa parte della produzione del valore significa che la scelta efficiente è innanzitutto quella che razionalmente è capace di incorporare valore sociale e conseguentemente significa fare scelte di valore. Esemplare su questo è la lettera che ha inviato Larry Fink di BlackRock ai propri dipendenti e ai propri investitori, ricordando loro che il criterio guida delle loro scelte future dovrà basarsi principalmente su quello che ha definito “The sense of purpose”. La cosa è rilevante perché certifica come, oltre al rischio e al rendimento, ci sia una terza dimensione, quella etica, che compone il paniere della nuova razionalità economico-finanziaria.

Ecco quindi il primo punto che volevo proporre: la trasformazione prodotta dal sociale sta nell’aver ridefinito il principio di efficienza allargandolo a quella che possiamo chiamare razionalità sociale o ragionevolezza. Per dirla con Von Wright: “i giudizi di ragionevolezza sono orientati verso il valore. Ciò che è ragionevole è senza dubbio anche razionale, ma ciò che è meramente razionale non sempre è ragionevole”. Bisogna recuperare gli assunti di valore, per essere efficienti e sostenibili. L’altro elemento che segna la trasformazione prodotta dal sociale ha a che fare con la costruzione dell’identità delle istituzioni (profit/non profit), infatti un conto è riconoscere l’identità, altro è costruirla. Se l’identità è un insieme di caratteristiche che connotano di sé un soggetto ed è qualcosa che è frutto di un processo di scelta, è evidente che essa non “si dia” una volta per tutte. Infatti, quello identitario è un fenomeno prettamente morfogenetico, un fenomeno cioè ad elevato grado di cambiamento che evolve sia per spinte interne, sia in seguito alle trasformazioni della società in cui tanto il for profit quanto il non profit, sono inseriti.

In tal senso, la costruzione – e non già la scoperta – dell’identità comporta sempre che un confine mobile venga tracciato. E ogni confine, per il fatto stesso di separare interno ed esterno, comporta sempre il rischio della difesa ad oltranza della propria identità. Ciò la rende precaria e pericolosa: precaria perché un’identità che non riesce a vedere l’altro non è sostenibile alla lunga; pericolosa, perché un’identità che non si pone in discussione degenera, prima o poi, nell’integralismo, cioè nel rifiuto a priori della diversità dell’altro. Dico questo perché oggi, nell’era del sociale che produce valore, non possiamo riconoscere l’identità solo leggendo l’iscrizione ad un albo o conoscendo la tipologia giuridica. In questo senso va anche la riforma del Terzo Settore che, istituendo la qualifica giuridica dell’impresa sociale, permette ad associazioni e fondazioni (tradizionali enti non profit) di assumere la natura imprenditoriale. Appunto, un conto è riconoscere l’identità altro è costruirla.

La costruzione dell’identità si deve misurare inevitabilmente con delle scelte a volte rischiose e con l’allineamento fra intenzioni, risultati e trasformazioni prodotte; un po’ come la circonferenza di Eraclito, dove il principio e la fine devono coincidere. Nel sociale questo è fondamentale, non bastano le intenzioni buone per garantire le azioni buone e né tantomeno le intenzioni buone sono garanzia delle trasformazioni buone. Quello che voglio dire è che il Terzo Settore, in un’epoca in cui la dimensione sociale è sempre più pervasiva, non può accontentarsi di un riconoscimento formale di “non lucratività”, ma deve declinare la sua biodiversità nei fatti e nelle trasformazioni che genera, ossia nell’impatto sociale che produce. Oggi il tema del sociale si misura sempre di più con le trasformazioni, cioè con gli effetti che le attività sociali producono sul contesto (comunità) e sui beneficiari.

L’agire sociale non è solo un atto di solidarietà, ma è anche un modo per trasformare la società, generare cambiamenti e condivisioni fra persone che considerano la relazione come un “bene in sé” (Arrow). Questo cambiamento, che vede il sociale come “input” del valore e non come mera esternalità, sta generando uno scenario completamente diverso dal passato. Panorama che vede crescere nel non profit la popolazione appartenente alla sfera produttiva e imprenditoriale. Sono 336.000 le organizzazioni non profit, di queste 20.000 sono imprese sociali (cooperative sociali e imprese sociali ex lege), sono relativamente poche in termini numerici, ma producono oltre il 50% dei 900.000 occupati del Terzo Settore. Dentro queste 336.000 c’è un nucleo che produce valore in maniera stabile e continuativa, perché stabile e continuativa è la dimensione appunto dell’imprenditorialità sociale. Imprenditorialità che è destinata inesorabilmente a svilupparsi, anche perché si rivolge ad una domanda pagante che cresce in maniera esponenziale. E’ stata stimata in circa 110 miliardi della spesa complessiva delle famiglie e dei cittadini per la cura, la sanità (40 miliardi di spesa out of pocket), la scuola, l’assistenza, ecc. Se a questo flusso crescente aggiungiamo i 21 miliardi che le imprese sono in grado di mettere in campo attraverso progetti di welfare aziendale, si capisce bene come il mercato delle imprese sociali sia destinato ad aumentare. Un mercato che potrebbe aspirare ad avere una scala industriale in quanto, quella sociale, è una delle più significative e consistenti voci di domanda interna del nostro paese. A tutto ciò si aggiunge l’impatto della tecnologia che aumenta in maniera sensibile le opportunità e la scala dei progetti sociali, riducendo in maniera consistente i costi.

La nuova imprenditorialità sociale infatti cresce con modelli di business diversi, che si nutrono in misura massiccia di strumenti come l’intelligenza artificiale, la blockchain e l’internet of things. Le nuove imprese sociali sono modelli “ibridi”, cioè capaci di ricombinare la dimensione commerciale con quella sociale, superando le classificazioni tradizionali (profit/non profit – pubblico/privato) Quella a cui stiamo assistendo, quindi, è la nascita di una nuova categoria di imprese che potremmo definire a “vocazione sociale” (cosa ben diversa da quella a responsabilità sociale). Se voi guardate molti bandi promossi da fondazioni, potete già notare come queste, oltre a non profit, imprese sociali, cooperative sociali, si rivolgano anche alle imprese a vocazione sociale, intendendo tutta quella “terra di mezzo” fra il profit e il non profit che si propone di perseguire finalità d’interesse generale (es. SIAVS, Benefit Corp, ecc).

Ma la vocazione sociale di queste imprese come viene misurata? Dall’impatto sociale che possiamo definire come la metrica che ci permette di capire se la vocazione è autentica o meno; ecco perché è fondamentale far cultura e migliorare gli strumenti di misurazione. L’impatto sociale diventa così lo strumento principale per qualificare e misurare la socialità dell’azione imprenditoriale sulla comunità di riferimento. La seconda parte del mio intervento voglio dedicarla alle risorse per finanziare queste nuove imprese. Se, come detto, cambiano i meccanismi di produzione del valore, il concetto di efficienza e le identità delle istituzioni, allora deve cambiare anche il mix di risorse che serve per lo sviluppo di queste organizzazioni. In altri termini se i modelli di gestione e di produzione del valore sono plurali e ibridi (pubblico/profit/non profit), anche le risorse finanziarie devono in qualche modo essere plurali, cioè devono ricombinarsi; non è più pensabile immaginare che il non profit possa svilupparsi solo con l’autofinanziamento, che l’equity sia prerogativa solo del for profit o che la cooperazione sociale si patrimonializzi solo con l’apporto di persone fisiche. Serve una visione nuova capace di dilatare le strategie finanziarie del non profit e dell’impresa sociale.

Da una ricerca realizzata da AICCON sul tema della finanza per il Terzo Settore, emerge l’intenzione delle cooperative sociali di coprire parte dei propri investimenti (circa il 7%) attraverso l’apporto di investitori privati esterni. Può sembrare una cosa non significativa ma emerge per la prima volta, dopo 7 anni di osservazione. Questo è il segno di come, anche dentro al perimetro mutualistico, si stanno aprendo opzioni rivolte a investitori prima impensabili (questa tendenza dovrebbe amplificarsi grazie alla riforma del Terzo Settore che permette ad investitori privati di entrare nella governance delle imprese sociali e di ricevere, anche se in forma ridotta, dividendi). Le strategie finanziarie diventano così ibride come la natura delle imprese a cui si rivolgono. Detto ciò, vorrei concludere sottolineando molto sinteticamente i trend più significativi rispetto alle risorse rivolte all’economia sociale e al non profit: 1. Filantropia. Oggi questa “asset class” si sta orientando su due ambiti: il primo è quello della generazione d’impatto sociale attraverso l’auto-organizzazione delle comunità, il secondo ha a che fare con il “consolidamento e la crescita” delle competenze presenti nelle organizzazioni non profit. Quindi community building e capacity building sono i due obiettivi verso cui il finanziamento delle fondazioni bancarie e delle organizzazioni filantropiche si sta orientando. Non si stimola più soltanto l’efficiente allocazione delle risorse, ma si stimola la generazione di infrastrutture sociali. Si stimola l’aggregazione della domanda, si stimola l’attivazione della domanda. E’ un cambiamento radicale, nel senso che non si ha più solo l’obiettivo di sostenere dei progetti meritori, ma ci si orienta su progetti che generino soluzioni comunitarie sostenibili. 2. Le Banche. Gli istituti di credito stanno cambiando profondamente anche sotto la spinta delle trasformazioni prodotte dal sociale. Per quanto riguarda il loro posizionamento nel Terzo Settore, siamo passati dalle minoranze profetiche, alle banche orientate al prodotto, poi ai settori.

Oggi assistiamo ad una nuova fase nella quale “il sociale” sta riorientando la visione e la “dimensione strategica” delle maggiori banche. Da cosa lo vediamo? Dall’investimento significativo che stanno facendo sulla formazione del loro capitale umano, e dalla tendenza ad uscire dal classico ruolo di erogatore, al fine di proporsi come “network orchestrator” (A. Giudici) fra profit e non profit, favorendo la creazione di progetti ibridi a finalità sociale. 3. Gli Investitori. In questo scenario è facile prevedere in futuro un maggior peso degli investitori. I fondi di social venture si proporranno con maggior intensità quali partner interessati a partecipare ai business sociali promossi da queste nuove forme di economia. Dalle ricerche più recenti si evidenzia come stiano crescendo la domanda di beni e servizi ad alto contenuto sociale e, conseguentemente, il numero dei fondi e fondazioni volte a promuovere imprese orientate all’impatto sociale. Siamo in una fase di transizione ed il processo di cambiamento è in corso. Non sappiamo cosa succederà in futuro, sappiamo però con certezza che il sociale sta cambiando l’economia e il modo di produrre valore, perciò dobbiamo attrezzarci per un nuovo paradigma dove peseranno maggiormente la coesione e la sostenibilità.


da ey.com
*Paolo Venturi è direttore di Aiccon
Scarica il report completo di Fondazione EY

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