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Il sistema anti-tratta rischia il collasso
La crescita degli sbarchi sulle coste italiane ha fatto aumentare in modo esponenziale lo sfruttamento. Sempre più ragazze sono costrette a prostituirsi ma la mancanza di fondi strutturali rende la macchina dell’assistenza assolutamente inadeguata e chi vuole scappare dal proprio sfruttatore è costretto a mettersi in lista d’attesa
È un sistema che rischia il collasso quello delle organizzazioni che si occupano di contrasto alla tratta e alla prostituzione di esseri umani in nord Italia. Sempre meno fondi, accessibili solo attraverso bandi a singhiozzo da un lato e dall’altro sempre più persone che sbarcano sulle coste italiane e cadono nelle fittissime reti stratificate della criminalità organizzata, rendono ancora più evidenti le falle di una macchina dell’assistenza assolutamente inadeguata a fornire una via di fuga per chi finisce sulle strade italiane a fare la schiava.
La prova, il fatto che oggi le donne che finalmente riescono a decidere di fidarsi degli operatori in strada e a scappare dai loro sfruttatori, devono mettersi in fila. “In Lombardia in questo momento ci sono circa 20 donne che hanno deciso di lasciare la strada e sono attualmente in lista d’attesa, perché tutti i posti nelle case di accoglienza ad indirizzo protetto sono occupati,” spiega Marzia Gotti, responsabile della prossimità territoriale di Lule, l’associazione che, con più di vent’anni di lavoro alle spalle, rappresenta una dei principali soggetti in nord Italia ad occuparsi di lotta al traffico di esseri umani e assistenza alle vittime di tratta. “È una situazione che è andata peggiorando negli ultimi due anni per motivi diversi, primo tra tutti l’incremento degli sbarchi. Moltissime donne sono avviate allo sfruttamento dopo essere arrivate sulle nostre coste come profughe. In particolare negli ultimi due anni abbiamo registrato un aumento esponenziale delle ragazze nigeriane.”
Nel 2016, su 900 ragazze contattate da Lule, che opera nel territorio a sud/ovest di Milano, sulla Binasca e in provincia di Pavia, 340 erano di nazionalità nigeriana: più di un terzo delle donne costrette a prostituirsi. Alla base dell’incremento, anche un cambiamento delle modalità di sfruttamento. A tenere le donne nigeriane legate al giogo degli sfruttatori, l’obbligo di ripagare il debito di viaggio a chi ha promesso di portarle in Italia per trovare una vita migliore. Un patto sancito con il valore sacro di un rito woodoo (credenza ancora popolarissima in diverse aree della Nigeria), impensabile da spezzare o non rispettare poiché, secondo la tradizione, chi non lo onora rischia la propria vita e quella dei propri cari.
Eppure, se fino a due anni fa, chi veniva fatto arrivare via mare si impegnava a pagare un debito di viaggio agli sfruttatori che si aggirava tra i 40 e i 60mila euro, oggi il debito è più basso, non supera i 30mila euro, “l’idea – spiega Marzia Gotti – è quella di abbassare la cifra ma portare in Italia più persone.”
I numeri sono la prova: secondo l’Organizzazione mondiale delle migrazioni circa l’80% delle 11,009 donne nigeriane sbarcate in Sicilia nel 2016 sono finite nelle mani dei trafficanti.
“Per fare fronte a questo incremento il sistema anti-tratta nazionale avrebbe dovuto già essere cambiato da tempo. Servono più finanziamenti e i fondi dovrebbero essere strutturali, invece funzionano ancora a bando, rendendo l’accesso alle risorse molto più macchinoso e complicato, così come il lavoro degli operatori sul campo.”
Un bando nazionale del Ministero delle Pari Opportunità, che dal 2012 a maggio 2016 non è mai uscito (si continuava a lavorare attraverso una proroga semestrale del bando relativo al 2011), e che quando è finalmente stato pubblicato, a luglio 2016, ha stanziato un totale di 13 milioni di euro da settembre 2016 a dicembre 2017, assegnati su territorio nazionale. Una cifra irrisoria, se si pensa all’estensione del fenomeno e ai costi relativi alle strutture di prima accoglienza, che prevedono la presenza di operatori 24 ore su 24.
I fondi inadeguati alla vastità dello sfruttamento però non sono l’unica grossa difficoltà: per via di alcuni problemi tecnici e burocratici, alcuni soggetti da anni impegnati nell’assistenza alle vittime di tratta e sfruttamento non sono risultati idonei e diverse regioni sono rimaste completamente scoperte, senza finanziamenti.
Tra i grandi esclusi: Piemonte, Liguria, Valle d’Aosta, Sardegna, Basilicata, gran parte della Sicilia e anche il comune di Milano. “Il risultato è che ci sono meno risorse e i territori di confine come il nostro, vicino a Milano e al Piemonte, ricevono molte più richieste di assistenza di quante ne riescano a soddisfare.” In Lombardia dove le donne sfruttate in strada sono intorno alle 5mila, sono solo 3 le strutture a indirizzo protetto disponibili, (fanno tutte parte del progetto vincitore del bando nazionale Mettiamo le ali: dall’emersione all’integrazione, di cui Lule è capofila), con un totale di 12 posti letto. “In posti come questo il turnover è alto, di solito riusciamo ad ospitare tra le 50 e le 70 donne all’anno, qui non si dovrebbe rimanere mai più di un mese”, il passaggio successivo infatti è quello della seconda accoglienza, dove le donne rimangono dai 4 ai 12 mesi, per poi, dopo aver ricevuto il permesso di soggiorno, essere trasferite nella terza accoglienza, l’ultimo step prima dell’autonomia.
“Fino a qualche anno fa, quei 12 posti in prima accoglienza bastavano ma oggi non riescono più ad accogliere tutte le ragazze che vogliono lasciare la strada” e mettere in lista d'attesa chi è costretta a fare la schiava subendo violenze indicibili ogni giorno e ogni notte non può essere un’alternativa.
Foto: ANDREAS SOLARO/AFP/Getty Images
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