Mondo

Il serpente di Port-Au-Prince

Dopo il terremoto la stima dei bambini a rischio è salita a 2 milioni

di Benedetta Verrini

Lo chiamano proprio così: «Le grand serpent». Come se la catastrofe fosse un lungo biscione che non se ne va via più. E a pagare sono soprattutto i più piccoli Quando il terremoto ha devastato Haiti, il 12 gennaio scorso, l’ora locale segnava le 16.30. I bambini erano ancora a scuola o per le strade a giocare. Le mamme a casa. Nell’inferno che in pochi secondi ha ucciso oltre 220mila persone, i piccoli sopravvissuti hanno conosciuto un nuovo dramma: la separazione.
Si tratta di un’«emergenza senza precedenti per l’infanzia», dicono dall’Unicef. A sei mesi dal terremoto la situazione è ancora molto lontana da uno standard di normalità. Sono circa 1,6 milioni gli sfollati nella capitale Port-Au-Prince e nelle zone circostanti, sistemati in 1.342 insediamenti spontanei. Tra i rifugiati, la popolazione infantile o comunque minorenne risulta quasi la metà, pari a 800mila bambini e ragazzi in estrema difficoltà.

Lo spettro della tratta
Con lo sguardo dei piccoli, il sisma è arrivato come un gigantesco serpente, che con la sua coda rabbiosa ha scosso la terra e ha rovesciato ogni cosa. Per gran parte di loro, le grand serpent è arrivato a peggiorare una situazione già compromessa: «Ha alimentato una preesistente e prolungata crisi nell’ambito della protezione dell’infanzia, trasformandola in un’emergenza senza pari», dice François Gruloos Ackermans, rappresentante Unicef Haiti. Dopo il terremoto, il numero dei minori a rischio è salito da 1,2 a 1,5 milioni a cui vanno aggiunti altri «500mila bambini ad alto rischio». Monitorare la situazione è difficile, forse impossibile. Lo spettro della tratta, nella confusione del post terremoto, viene faticosamente combattuto attraverso la registrazione dei minori e il tentativo di ricongiungimento (con la collaborazione di Save the Children, Unicef ha rintracciato oltre duemila minori soli e realizzato il ritrovamento della famiglia per 337 di loro).

I parenti degli orfani
Mentre è ancora ignoto il numero dei bambini che hanno perso uno o entrambi i genitori, l’opinione pubblica internazionale ha preso a cuore la vicenda e molte famiglie in tutto il mondo hanno chiesto di poter adottare o accogliere temporaneamente i piccoli privi di cure parentali.
Ma nell’impossibilità di ricostruire tempestivamente i legami rimasti, si è preferito lasciare i bambini nel loro contesto di riferimento. «Dai nostri centri parte un’importante attività di registrazione e monitoraggio dei bambini a rischio di traffico, che Terre des Hommes sta conducendo anche nelle crèche (le case d’accoglienza dei bambini abbandonati) di Haiti», ha dichiarato Raffaele K. Salinari, presidente di Terre des Hommes. «Dai nostri controlli il 70% dei bambini definiti orfani risulta avere almeno un parente in vita».
I maggiori Paesi di destinazione delle adozioni per i minori haitiani – cioè Stati Uniti, Francia e Paesi Bassi – hanno attualmente interrotto il deposito di nuovi fascicoli per le pratiche di adozione. I bambini partiti a scopo di adozione nel post terremoto, secondo TdH (che però ha definito questa procedura “affrettata”), sarebbero 1.800. Altri partiranno molto presto. Sul fronte delle adozioni, il Parlamento haitiano ha in agenda la discussione di una nuova legge sulle adozioni (quella attuale risale al 1974), che dovrebbe allineare il Paese alla Convenzione dell’Aja.

Proteggere le famiglie
Su una cosa tutti i cooperanti sono d’accordo: per riattivare il senso di responsabilità familiare bisogna togliere la fame. «C’è ancora una fame devastante, che resta il problema più grave e compromette la capacità delle famiglie di farsi carico dei bambini», commenta Silvia Valigi, della Fondazione Rava, realtà storica ad Haiti, che con il suo orfanotrofio ospita 600 minori e con le sue attività di protezione e distribuzione di cibo e acqua raggiunge altri tremila minori in 17 comunità attraverso il progetto «Angels of Light». «L’accoglienza parentale e sociale fa parte delle cultura haitiana», sottolinea Fiammetta Cappellini, cooperante Avsi. «Il problema per cui una famiglia non riprende in carico un bambino è di natura economica, dunque sostenere le misure di nutrizione, attraverso le mense, e di scolarizzazione gratuita, risolve in parte il problema».
Eppure poche settimane fa «il governo haitiano ha vietato la distribuzione di cibo nei campi», spiega Daniele Lodola, operatore di ActionAid. Una scelta difficile, dettata dalla necessità di evitare tafferugli. Le ong, in ogni caso, continuano ad effettuare la distribuzione di cibo in modo ordinato, all’interno dei progetti. Così anche SOS Villaggi dei Bambini, che nel suo villaggio di Santo ospita 410 minori e porta assistenza a circa 22mila persone.

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