Quando le organizzazioni si riuniscono significa che stanno compiendo un passo in avanti nella maturazione e nella definizione del proprio ruolo. È connaturato nell’idea di prodotto collettivo che, corale, riesce ad esprimere qualcosa che in realtà prima non c’era o non appariva così chiaramente.
Il messaggio collettivo così come la voce fuori dal coro meritano di essere ascoltati.
E le 100 fondazioni che si sono confrontate in maniera appassionata e attenta nei due giorni di Philanthropy Experience (http://www.vita.it/it/event/2022/09/26/philanthropy-experience/4985/) hanno a mio avviso molto da dire. Il fatto stesso che abbiano scelto di incontrarsi è qualcosa da dire.
100 fondazioni diverse per natura (famiglia, impresa, comunità e partecipazione), una varietà di ambiti nei quali sono impegnate (welfare, ambiente, passando per l’arte e cura) ma una comunanza nel tracciare 3 cammini verso i quali la filantropia Italiana sembra andare.
L’Italia sta sviluppando un modello filantropico caratterizzato dalla propensione di chi dona (ente filantropico) a stringere con chi riceve un rapporto partenariale che li unisce in un progetto capace di migliorare le condizioni di vita di un territorio, di una comunità (grande o piccola). Questo, Ça Va Sans Dire, sta modificando il concetto di dono e gli strumenti per donare.
Esiste una funzione pubblica e comunitaria nella quale i filantropi si riconoscono e che sta consentendo un adattamento (comunità di intenti) del mondo filantropico all’interno del genus del Terzo settore pur con le specifiche diversità. Su questo la prontezza di tante realtà filantropiche nell’iscriversi al RUNTS è stata un indice importante.
La filantropia italiana sta dimostrando che la capacità innovativa che interpreta è dimostrata nel suo essere capitale di rischio (Castello, Swierczynska in Filantropia 2.0,) che sostiene processi con un interessante potenziale di scalabilità.
I filantropi non sono animali solitari e le fondazioni non sono (sempre!) battitori liberi. In sintesi si sta determinando la capacità della filantropia Italiana di essere tessitore di relazioni positive che attivano tra soggetti diversi azioni collaborative che costituiscono vere e proprie alleanze per lo sviluppo. Ed ecco che le fondazioni cuciono sistemi di welfare avanzato a quelli tradizionali, intrecciano interventi di supporto alle fragilità con percorsi educativi e formativi, progetti di recupero urbanistico a processi partecipativi della cittadinanza.
Tutto questo sembra esser possibile non solo grazie alla crescita culturale e di consapevolezza delle fondazioni ma perché non hanno necessità di mettersi in concorrenza, anzi, rafforzano la loro naturale voglia di protagonismo agendo da collante, snodo, riferimento.
Le fondazioni, questo in vario modo abbiamo ascoltato ed osservato, stanno compiendo un cammino verso un sistema di rete (e reti) e la riforma del Terzo Settore sta giocando un ruolo decisivo perché le riporta all’interno dell’insieme degli ETS (appartenenza) e perché incentiva, con soglie sensibilmente più basse rispetto agli altri ETS, la costituzione in Reti locali e nazionali (strategia).
La sensazione è che il processo avrà una sua originalità. La visione è che le fondazioni italiane si ritroveranno in reti non determinate dall’origine del patrimonio di costituzione ma caratterizzate dall’ambito (tema) nel quale operano con un sostegno finanziario e di competenze.
Tra le prime esperienze quella annunziata proprio durante Philanthropy Experience, lo Sport For Inclusion Network, rete che sorgerà tra fondazioni che sostengono e realizzano interventi di sport inclusivo.
Siamo probabilmente davanti a una visione più aperta della filantropia, interessata a sistemi di rete caratterizzati per temi e obiettivi e non per natura giuridica, più consapevole del senso strategico (e forse del significato politico) di un’azione libera, determinata e auspicabilmente corale.
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