Non profit

il self service dove l’elemosina si trasforma in diritti

A Milano Opera San Francesco festeggia 50 anni di servizio

di Sara De Carli

Duemila pasti al giorno, 623mila all’anno.
Un servizio tradizionale,
la mensa dei poveri, che i Cappuccini, seguendo le intuizioni di san Francesco, hanno però saputo innovare. Così un badge
ha trasformato un servizio assistenziale in un laboratorio di cittadinanza attiva Diceva san Francesco che l’elemosina è l’eredità cui i poveri hanno diritto. Era il 1221. Il poverello d’Assisi (che amiamo di più ricordare come il giullare di Dio) lo lasciava come criterio d’azione per i suoi frati, scrivendolo nero su bianco nella Regola non bollata. Quasi ottocento anni dopo, con in mezzo la Rivoluzione francese e l’età dei diritti, il welfare quotidiano ancora si torce, come in un parto, nel tentativo di passare dall’assistenzialismo alla cittadinanza. Gli eredi di Francesco, invece, quel passo lo fanno ogni giorno da secoli, nella semplicità di un servizio antico come dar da mangiare a chi bussa: all’apparenza il paradigma esatto dell’assistenzialismo più puro. Ma non per nulla Francesco era un santo. O laicamente un genio.

Un esercito di utenti
Milano, viale Piave. Appena dietro la cerchia dei bastioni, a un chilometro dal Duomo, mille persone fanno la fila, all’ora di pranzo e poi a quella di cena, per entrare alla mensa dell’Opera San Francesco per i Poveri. La stragrande maggioranza, quasi il 90%, sono stranieri. Tanti eritrei e cinesi, ultimamente. Giovani, puliti, con abiti che non sono trendy ma nemmeno etichettabili come “smessi”. Qualcuno ha l’iPod. Altri la cravatta. Le donne si contano sulle dita di due mani. Nel 1898 Bava Beccaris sparò su questa folla, credendoli «rivoltosi in sciopero». Oggi le bordate sono d’altro tipo. Contro gli immigrati che creano disordine, bevono per strada e qualche volta ci fanno pure i loro bisogni. Ma chi vive qui accanto, chi si lamenta e brontola, è tra i benefattori più fedeli dell’Opera.
La mensa serve duemila pasti al giorno. Primo, secondo, frutta e dolce. Perché essere povero non è una condanna ad accontentarsi. Per questo qui i volontari – ma ancor di più i cinquanta dipendenti – hanno l’input preciso di dire “utente”, non “povero”. «L’utente è colui che ha diritto a un servizio», spiega padre Vittorio Arrigoni, cappuccino, vicepresidente di Opera San Francesco. «O perché lo paga o perché gli appartiene. Nel nostro caso perché gli appartiene, nella condivisione. Il passaggio che noi frati abbiamo dovuto fare è stato dal dare qualcosa al povero a dare una risposta reale a una persona, che non è definita dal suo essere povero».

Con il badge al self service
La forma concreta in cui questa riflessione si è tradotta è quella piccola, famigliare e rivoluzionaria di un badge. Opera San Francesco ne ha attivi più di 7mila. Con quello si accede a tutti i servizi: la mensa, le docce, il poliambulatorio, la farmacia, il guardaroba.
«Non devi più bussare per esercitare il tuo diritto, non devi neanche chiedere», spiega padre Vittorio. «Hai le chiavi di casa, quello che c’è qui ti appartiene. Il badge ci aiuta a dire tutto questo. Però altrettanto semplicemente fa capire che il tuo diritto è accompagnato dai doveri che ogni relazione comporta». Per esempio il badge dà diritto a due pasti al giorno, e alla terza il tornello si blocca.
Una volta dentro, al posto della vecchia mensa dove i frati giravano con i pentoloni di minestra fumante c’è un moderno self service. Padre Vittorio è durissimo: «Servire la minestra era gratificante per il frate o il volontario, meno per chi doveva tendere il piatto. Il self service è una risposta più adeguata sia rispetto ai numeri, sia sul come percepisco l’altro che ho di fronte. Il piatto è lì, te lo prendi tu, scegli tu se vuoi mangiare tutto il pasto o solo ciò di cui hai voglia».

Dal cosa vuoi al chi sei
Per padre Vittorio l’unico modo per evitare l’assistenzialismo è quello di guardare in faccia la realtà che cambia. «Non partire da ciò che ho in mente io, ma dalla realtà. Ci evita di andare avanti per inerzia, dando per scontata una risposta che alla fine diventa non più umana. Faceva già così fra Cecilio, portinaio del convento dal 1911 al 1974, sempre in giro per Milano a cercare ciò che di meglio si poteva dare ai poveri», dice. Fu fra Cecilio ad accettare l’aiuto di un industriale della zona, Emilio Grignani, che si offrì di costruire, all’interno del convento, un luogo dove i poveri potessero mangiare al coperto. Era il 1959, ed è per questo che Opera San Francesco festeggia oggi i cinquant’anni: i Cappuccini, guardando indietro, riconoscono l’inizio di un novum nel connubio tra il loro carisma e la sensibilità laica di quello che ora chiamiamo volontariato (economia inclusa).
«Noi non siamo un’opera sociale, se con questo definiamo la presa in carico globale di chi vive un disadattamento sociale. La presa in carico con questi grandi numeri ci sarebbe impossibile», spiega padre Vittorio. Eppure? Eppure i badge scadono ogni mese, per dar modo agli operatori del segretariato sociale di vedere in faccia tutti gli utenti e verificare con loro i percorsi di uscita da quella condizione che li porta a bussare al convento. L’idea è quella di arrivare a una tessera legata al bisogno reale: per esempio valida per quindici pasti, per chi ha “solo” il problema dell’ultima settimana oppure per portare via il cibo, tenendo i bambini a casa. Dal cosa vuoi al chi sei.
Per farlo servono volontari formati. Che è, per padre Vittorio, la grande sfida su cui lavorare. All’Opera San Francesco di volontari ce ne sono più di 500. Alcuni però durano poco: «Se ne vanno perché non riescono a sopportare questo tipo di povertà. Che è la povertà di chi non ha a sufficienza ed esercita però il suo diritto a esistere, a cercare una vita migliore, con aspettative e a volte anche pretese». Allora? «Si cerca di educarci a vicenda. Da un lato a non avere pretese, dall’altro a convertire la nostra idea di povero».


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