Welfare

Il secondo figlio? Con lo stipendio da educatore non possiamo permettercelo

Sui social in tantissimi ci state raccontando, per frammenti, le difficoltà quotidiane di chi lavora nel sociale. «È ora di uscire allo scoperto e cominciare a far capire a tutti quanto è importante il lavoro che svolgiamo per la società intera», ci dite. Vita raccoglie l'appello, cominciando dalla storia di Claudio, 32 anni, educatore. Iniziamo un grande racconto di testimonianze di social workers, per capire, per valorizzare, per provare a cambiare

di Sara De Carli

Claudio ha 32 anni e una bimba di tre. Ha una laurea, è iscritto all’albo degli educatori sociosanitari e lavora in una residenza sanitaria per disabili del nord Italia, gestita da una Fondazione. Prende 1.200 euro al mese per 38 ore settimanali, di cui 100 all’anno se ne vanno per l'iscrizione all’albo, obbligatoria e altri 36 per l’assicurazione. Per arrotondare qualche volta dà una mano in una comunità per minori, così come altri colleghi fanno i pizzaioli o i meccanici. «Mia moglie ha un part time a 900 euro, sempre nel sociale: ci siamo già detti che un secondo figlio non ce lo possiamo permettere. Ho anche un master, ma in questo settore quello che fai in più rischia di perdersi, fare carriera significa prendersi molte responsabilità per pochi soldi in più», dice.

Claudio potrebbe chiamarsi anche Marco, Lorenzo, Stefano: non è questo il punto e infatti Claudio non è nemmeno il suo vero nome. Quello che conta è che la sua storia è vera ed è simile a quella di tantissimi altri giovani e meno giovani educatori. Ce le state raccontando per flash sui nostri social, nei commenti agli articoli che stiamo dedicando al difficilissimo momento che i lavoratori del sociale stanno attraversando. «Direi che è ora di uscire allo scoperto e cominciare a far capire a tutti quanto è importante il lavoro che svolgiamo per la società intera, e quindi marginale per definizione», ci ha scritto per esempio Rossana.

Un invito che Vita raccoglie. Dopo aver dedicato al tema il numero di maggio, ancora in edicola e acquistabile sul nostro store, Iniziamo un viaggio per raccontare la quotidiana fatica di chi svolge un lavoro così cruciale per il presente e il futuro delle nostre società e insieme con un così basso riconoscimento sociale ed economico. In fondo all'articolo i contatti per farci avere le vostre testimonianze. Partiamo con la storia di Claudio.


«Ho un contratto indeterminato a tempo pieno come educatore, seguo persone anziane non autosufficienti o giovani con autismo, in ogni caso persone le cui condizioni sono incompatibili con intervento domiciliare ma necessitano di un intervento specialistico, con un grado di pericolosità e di gestione del disturbo del comportamento ampio. Saltuariamente faccio l'educatore in una comunità per minori, ho dato reperibilità nel weekend o quando sono in difficoltà nella gestione dei turni dei loro operatori. Questo lavoro extra ha una valenza formativa, perché mi permette il confronto con un contesto differente, sia perché è un'opportunità economica rispetto ad uno stipendio che – non c’è neanche bisogno di dirlo – è una palese criticità del nostro lavoro», esordisce Claudio. Per capirsi, bisogna dare le cifre: «Un netto di 1.200 euro per 38 ore settimanali che comprendono turni di sette ore e mezzo – in realtà 9 ore con pausa non retribuita – e a rotazione sabati e domeniche. Gli straordinari vengono pagati ai medici, agli infermieri, agli ASA e agli OSS ma all'educatore no. Matura una banca ore da fruire quando le condizioni lo permettono: ma in generale nel nostro mondo – specie nelle comunità per minori – chiedere recuperi è impossibile, quindi alla fine gli straordinari spesso decadono. Io faccio di più, sacrifico il mio tempo personale… per cosa? Per nulla. c’è un di più di impegno e di responsabilità che non viene riconosciuto a livello economico».

Claudio racconta delle “notti passive”, che non lo riguardano personalmente ma che in molte realtà sono la norma. Sei presente in struttura, per 14/15 ore a notte, ma non ti pagano. C’è la camera dell'educatore, se succede qualcosa ed entri in servizio ti pagano la notte… se no dormi e quindi non ti pagano. «Dormi si fa per dire… hai una responsabilità e comunque non sei a casa tua, con la tua famiglia. Ormai la mancanza di personale è così cronica che talvolta vengono chiesti turni da 24 ore, da soli in turno, c’è da ritenersi fortunati se c’è la co-presenza», sottolinea. Un’altra fatica è il fatto di avere un weekend di riposo ogni sei settimane, una cosa non così irrilevante per la vita di una famiglia: «Quando programmi ogni attività devi dire “faremo quella cosa tra sei settimane… Il sabato tanto atteso arriva… e c'è sempre la pioggia. E così via al malumore in famiglia… Far comprendere questi tempi è difficile. Tra vita lavorativa e vita personale, è la tua vita personale quella che devi mettere in pausa più spesso».


Mia moglie ha un part time a 900 euro, sempre nel sociale: ci siamo già detti che un secondo figlio non ce lo possiamo permettere. Questo mese dal mio stipendio non abbiamo risparmiato nulla, anche se il risparmio come obiettivo ce l’abbiamo bene in mente

Claudio, 32 anni, educatore

Anche la moglie di Claudio lavora nel sociale, ha un part time da 900 euro. «È paradossale che con una laurea ciascuno e avendo iniziato a lavorare presto… non possiamo garantire a mia figlia lo stile di vita e le opportunità che i miei genitori hanno dato a me e ai miei tre fratelli. Il tema grosso è quello delle opportunità: lavorando nel sociale conosci bene le opportunità che ci sono, qual è il loro ruolo nella crescita di un bambino. Ma se facciamo un esame di realtà, mi chiedo dove possiamo arrivare? Siamo fortunati perché abbiamo già una casa, perché i nonni si prendono cura della bambina. Solo il nido costava 500 euro, non era sostenibile. Avevamo delle passioni, la danza, il teatro… abbiamo scelto hobby più economici. Questo mese dal mio stipendio non abbiamo risparmiato nulla, anche se il risparmio come obiettivo ce l’abbiamo bene in mente come famiglia».

Il tema delle possibilità di carriera, nell’ambito della professione educativa, è un altro tasto dolente: «Non ci sono grandi possibilità di carriera e sinceramente un po’ te ne stai lontano. Perché fare carriera significa un aumento delle responsabilità, ma non un aumento della retribuzione se non in maniera limitatissima. Diventare coordinatore vuol dire prendere 200 euro in più, ma con tantissime responsabilità in più. Chi si forma lo fa per se stesso e per le persone che segue, sapendo già però che quasi certamente questo sforzo non verrà riconosciuto. Per esempio le ore per la formazione obbligatoria per i crediti ECM – spesso con corsi a pagamento – non sempre e non ovunque vengono svolti in orario di lavoro, più frequentemente devi usare il tuo tempo libero per formarti».

Il riconoscimento sociale non c’è. Il riconoscimento arriva dai progressi persone che assisti, la molla è quella. E dai loro familiari, che sanno le condizioni in cui lavoriamo

Quella degli educatori è una professione ad alta responsabilità. «Lavoriamo con soggetti fragili, persone imprevedibili che possono facilmente mettersi in situazioni di pericolo, farsi male o farti male», racconta Claudio. «Per quanti anni puoi resistere? C’è bisogno di energia, è faticoso, a una certa età è anche normale che fai un passo indietro. Nelle pagine di cronaca però di questo aspetto non si legge mai». E poi il fatto di essere sempre reperibili, sempre in contatto: «D’altronde non è una catena di montaggio, che fatto il mio pezzo chi arriva dopo va avanti. Il mio pezzo non finisce, perché ti senti responsabile, perché credi nel percorso di rete, perché il pezzo che fai tu semina relazioni…». Le richieste sono economiche, certo, ma anche di valorizzazione: «Mi piacerebbe avere la possibilità di formarmi meglio, di crederci un po’. È un lavoro faticoso… ma il bravo non arriva spesso. Il riconoscimento sociale non c’è. Il riconoscimento arriva dai progressi persone che assisti, la molla è quella. E dai loro familiari, che sanno le condizioni in cui lavoriamo», conclude Claudio.

Educatori, assistenti sociali, psicologi, Asa, Oss… inviateci le vostre storie o segnalateci la vostra disponibilità ad essere intervistati (anche chiedendo l’anonimato) a s.decarli@vita.it: c’è bisogno di raccontare una realtà che – dall’esterno – pochi conoscono. È il primo passo per cambiarla.

Foto di Photoshot/Sintesi

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