Welfare

Il sapere degli educatori professionali: un fiume carsico per ripensare il welfare

Ci arriva in redazione un contributo sul dibattito in corso. Le novità normative sono l'occasione per ripensare complessivamente il tipo di intervento educativo e quindi il welfare di domani. La proposta? Immaginare un “incubatoio di idee” aperto e inclusivo, partendo dalla narrazione del “banale quotidiano” della vita dei servizi e delle loro competenze

di Fabio Ruta e Paolo Zuffinetti

Viviamo tempi bui come educatori, ma tempi ancora peggiori si preparano se non sapremo renderci attori di un cambiamento complessivo che ridisegna gli scenari del welfare e della cultura dei servizi anche attraverso la definizione dei ruoli professionali.

La costituzione dell’albo ex Lorenzin non è che “il di cui” che ha scoperchiato un mondo multiforme e variegato. Se tutto il tema si riducesse al passare le forche caudine dell’iscrizione, in un modo o nell’altro purché passarle, si attuerebbe un passaggio importante ma in fondo riduttivo e castrante di un ragionamento ben più ampio sulla professione educativa. Osserviamo come molta della mobilitazione sia stata sostenuta da un bisogno di riconoscimento identitario e di dignità professionale, valicando la dimensione del semplice lasciapassare.

Siamo dunque responsabili, noi educatori e tutti gli attori coinvolti (politici, semplici educatori, responsabili degli enti, sindacati…) oggi, del ridisegno complessivo, della costruzione del futuro professionale nostro, dei servizi in cui lavoriamo e più in generale della cultura dell’intervento educativo che sottenderà le azioni nei prossimi anni. Un processo dalla cui complessità non dobbiamo essere intimoriti né trovarne motivo per abdicare ad un ruolo. Siamo oggi responsabili e domani chiamati, ognuno per il suo ruolo, a render conto dell’agire intrapreso.

La vasta partecipazione che si è registrata attorno alla battaglia per la equipollenza in realtà evidenzia una più ampia e consistente rivendicazione di dignità professionale del lavoro educativo. L'entusiasmo, le competenze, e la continuità del lavoro che sono in atto da mesi sono testimonianza dell’energia interna alla categoria professionale che probabilmente “covava” da tempo, come un fiume carsico, in attesa dell’occasione per emergere all’attenzione pubblica e dirompere in un protagonismo inedito. La professione dell’educatore – costitutivamente liminale, di confine ed interconnessione tra saperi disciplinari ed ambiti di intervento diversificati – reca in sé evidenti fragilità, ma anche vaste potenzialità. E per le sue caratteristiche “borderline” costituisce davvero un osservatorio privilegiato delle trasformazioni sociali e culturali in corso. Il vedere messo a repentaglio il riconoscimento della propria professionalità – acquisita in decenni di attività professionale ed in percorsi formativi e di studio propedeutici – ha semplicemente funto da “innesco” e da “attivatore”.

L’iniziativa per l’equipollenza del titolo di EP conseguito in corsi regionali post 99 alla laurea in snt2 è solo uno “spicchio”, seppur centrale e paradigmatico, di una battaglia più ampia per il giusto riconoscimento del lavoro educativo. Non a caso la nostra iniziativa ha presto incrociato e stabilito un dialogo con quella degli educatori laureati in Sde per l’accesso al lavoro in ambito sociosanitario e della salute; con la campagna sindacale per i giusti rinnovi contrattuali nel Terzo settore; con quella troppo a lungo rimossa per il giusto inquadramento degli educatori professionali nel contratto degli enti locali; con le spinte per il rafforzamento e la estensione della clausola di salvaguardia del posto di lavoro anche agli operatori che operano in costanza di cambi di appalto o che esercitano in regime di libera professione (e quindi ancor più vulnerabili). Abbiamo sfiorato temi che sono oggetto di recenti iniziative editoriali, come quello della prevenzione e cura della sofferenza professionale. Tema che considero centralissimo e a mio avviso non meno importante dell’aggiornamento professionale, della formazione continua e degli ECM. Lasciatemi dire che molto spesso i supporti formativi “a gettone” ed “una tantum” offerti ai servizi e agli operatori hanno un carattere puramente “analgesico”. Sono rarissimi i casi ove esista una reale “manutenzione” del lavoro educativo (riprendendo il senso etimologico della parola “manu-tenere”, con la sua accezione clinica e di cura e quella deittica di indicare una rotta): comporterebbe più onerose consulenze di processo, che istruiscano una riflessione di secondo livello sull’agire educativo e ne accompagnino l’opera nel “day -by- day”. Consulenze di processo sull’agire educativo di taglio pedagogico, che analizzino le criticità della operatività quotidiana, l’incrocio di saperi e mansioni diverse nel lavoro multisciplinare di équipe: che sappiano elaborare in funzione maieutica i conflitti. In integrazione ad un sostegno psicologico, altrettanto necessario in professioni a contatto con il disagio sociale, la cronicità, la follia, spesso il lutto. Mettere in campo questi livelli di cura del lavoro educativo potrebbe avere effetti benefici sui servizi: molto più di illusorie scorciatoie securitarie o di controllo totale come quello della videosorveglianza delle strutture.

Ora senza perdere di vista la nostra “mission” originaria, potremmo aprire una fase nuova. La suggestione che mi sento di proporre è quella immaginare uno spazio aperto ed inclusivo che prefiguri un “incubatoio di idee” attorno all’agire educativo, alle sue forme, alla sua identità prismatica, alla sua evoluzione storica, al suo riconoscimento giuridico-economico-contrattuale. Il tutto mettendo in rete e in circolo testimonianze dirette centrate sulla “materialità” del lavoro educativo, sui saperi, componendo i “frames” di una immagine collettiva ed in continua ridefinizione. Il precipitato di questo lavoro potrebbe prendere forme diverse: da quella della narrazione artistica a quella editoriale. Potrebbe divenire addirittura propedeutica alla nascita di un “movimento dal basso” che si rivolga alle diverse soggettività del lavoro educativo, per metterle in rete. Lontani da ogni divisiva postura corporativa, in una ottica orizzontale e “garibaldina”. Una “rete” non autoreferenziale, ma capace di creare sinergie ed interfacciarsi con una molteplicità di attori e soggetti: dai media, alle università e agenzie formative, dagli enti gestori alle forze sociali e sindacali, dalle associazioni di categoria a quelle degli utenti e delle loro famiglie, sino al livello politico ed istituzionale.

Le attuali forme di rappresentanza – associazioni, sindacati, gruppi e movimenti politici – potrebbero ben giovarsi, se in grado di intercettare e aprire forme di dialogo, godere della capacità, collettiva, di intercettare il “banale quotidiano” della vita dei servizi, la competenza nel rileggere con pratiche autoriflessive la vitalità della professione, che valica gli steccati nominalistici troppo spesso imposti e definiti da altri.

Gli autori
Fabio Ruta è educatore professionale post 99 con circa 25 anni di servizio in tipologie di servizio e con utenze diverse. Laureato in Sde e Consulenza Pedagogica e Ricerca educativa. Attualmente lavora nel settore delle disabilità

Paolo Zuffinetti è educatore professionale post 99 e formatore, si occupa del coordinamento di attività di formazione professionale di adolescenti e giovani

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