Non profit

Il Ruanda a bcaccia di coltan

Il coinvolgimento di Kigali nel conflitto

di Joshua Massarenti

L’obiettivo del regime di Paul Kagame è quello
di mettere le mani sulle riserve presenti nella regione congolese confinante S i chiama Coltan City. Chi ci vive racconta di sentirsi come in California. Case a schiera modernissime, con tanto di giardini e garage che hanno fatto la gloria e la fierezza della classe media americana. Con un’unica differenza : non siamo negli Stati Uniti, ma in Ruanda. A Kigali, il quartiere di Nyarutarama è l’ultimo gioiello urbanistico che il regime di Paul Kagame ha regalato agli abitanti della capitale. Coltan City ne è la sua gemma più preziosa. Lo sanno tutti, ma nessuno lo dice. Almeno non a voce alta.
Dal genocidio del 1994, il Ruanda è nelle mani di un uomo guidato da un unico obiettivo: impedire il ripetersi dei massacri che hanno sterminato i tutsi, la sua etnia, e fare del Ruanda una locomotiva economica dell’Africa centrale. A quindici anni di distanza, i pro Kagame parlano di missione compiuta. I suoi oppositori invece chiedono: quanto è costata alla regione la pace ruandese? Una delle risposte potrebbe esssere questa: Coltan City.
Il soprannome proviene da una risorsa mineraria preziosissima immersa nel sottosuolo del Kivu, territorio congolese confinante con il Ruanda e su cui il regime di Kagame avrebbe messo le mani per equilibrare il budget di un Paese privo di materie prime e con poche prospettive di sviluppo. Il coltan quindi, assieme all’oro e ai diamanti, sarebbe il vero motivo per cui Kagame è sospettato di sostenere nel Nord Kivu il generale Nkunda. Ma Kigali smentisce: «Noi con questa guerra non c’entriamo». Purtroppo la storia dimostra il contrario: tra il 1996 e il 2003, le truppe di Kagame hanno occupato il Kivu come se fosse una provincia ruandese, partecipando così a un conflitto regionale che ha fatto quattro milioni di morti. Ufficialmente: si trattava di difendere il Ruanda dalla presenza di ribelli estremisti hutu fuggiti in Congo dopo l’eccidio. Se è vero che la minaccia di questi estremisti è stata spesso usata come alibi, è anche vero che il potere congolese non ha mai fatto nulla per mettere i bastoni fra le ruote a Kagame. E se lo ha fatto, lo ha fatto male. Anzi, malissimo. Basti pensare che il dispiegamento di 135mila soldati congolesi non basta ad annientare un gruppo ribelle di 15mila uomini, molti dei quali minorenni. Per questo Nkunda, anche lui di origine tutsi ma congolese (è bene ricordarlo), ha deciso di prendere in mano la situazione (per conto di Kigali?) e correre in difesa dei suoi fratelli. Con soli 5mila soldati è riuscito a mettere in fuga l’esercito del presidente Joseph Kabila.
E di questo la comunità internazionale ne ha preso atto. Perché se ieri Bruxelles non esitava a puntare il dito contro il Ruanda, oggi Louis Michel, Commissario europeo agli affari umanitari, è convinto che «questa guerra riguarda al 90% i congolesi». Sottinteso: l’altro 10% chiama in causa i ruandesi. Sul perché ci sono molte ipotesi, ma di certezze nessuna. Una forse sì: cosa Kagame ha in mente rimane un mistero per tutti. Sia per i suoi sostenitori che per i suoi nemici.

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