Non profit

Il ritorno di Howe

Oggi l'esordio dell'italian black agli Europei di Barcellona. L'intervista dopo uno stop di due anni

di Paolo Manzo

 

L’ultimo allenamento prima della partenza per gli Europei di Barcellona lo ha fatto venerdì 23 luglio e, assicura lui “è stato un buon allenamento. Tutto sommato è stato a dir poco un miracolo se sono riuscito a recuperare e ad essere ai livelli della concorrenza in 10 mesi dall’intervento chirurgico … Un Miracolo”.

Il lui è Andrew Howe, passaporto italiano, cromosomi che sono un mix statunitense di origine caraibica e teutonica da far invidia ai genetisti più esperti, accento romanesco da far scompisciare (“namo, famo, tera, guera”, le più gettonate), risata sonora, simpatia trascinante, un’infanzia vissuta tra Los Angeles e il Santa Monica Track Club – dove king Carl Lewis (nove ori olimpici, record assoluto per l’atletica) lo prese in braccio quando aveva tre anni e gli disse “Tu sarai il primo a saltare nove metri in lungo”.

Il problema è che la più grande speranza dell’atletica leggera italiana arriva all’Europeo (oggi l’esordio)  dopo un calvario di infortuni durato due anni che lo hanno fatto letteralmente sparire dai mass-media anche se lui non ha fatto che lavorare duro per rientrare più forte che mai. Le qualificazioni del salto in lungo sono venerdì 30 luglio, l’eventuale finale il primo agosto, due date in cui questo numero speciale di Vita sarà ancora in edicola, ma poco importa, l’intervista è a 360 gradi e poi l’obiettivo di Andrew sono le Olimpiadi di Londra del 2012.

“Pochi mesi fa stavo ancora con le stampelle e il salto in lungo non perdona, io non vado in pedana su una moto, non posso essere competitivo solo un mese dopo un delicato intervento chirurgico”, mette avanti le mani Andrew, 25 anni appena ma un vissuto nel mondo dell’atletica e degli infortuni che farebbe impallidire qualsiasi matusa olimpico. “Per me quelli di Barcellona sono i Campionati europei del riscatto, della resurrezione dopo 2 anni passati a maledire piedi impertinenti e cartilagini di cristallo”, spiega Andrew che, nonostante la giovane età ha già alle spalle una carriera fulminante.

Un fenomeno già a 16 anni Howe, quando sui 100 metri fece 10 secondi 48 centesimi (Lewis a quell’età aveva un limite di 10 e 60), sui 200 fermò il cronometro a 20’91” (contro il 20’90” di king Carl), sui 110 ostacoli corse in 13 e 54 (seconda miglior prestazione all times della categoria), in lungo dava la paga al figlio del vento (lui 7 metri e 61 cm, Lewis 6,93), nel triplo fece il record mondiale studentesco (con 16 metri e 27 cm) e nell’alto lasciava sotto un certo Sotomayor. Nel 2004, ai Mondiali juniores di Grosseto Howe si impone all’attenzione internazionale aggiudicandosi la doppia medaglia d’oro sui 200 metri piani (con il personale di 20″28, miglior tempo dell’anno in Italia) e nel salto in lungo con 6 m e 11 cm. Le Olimpiadi di Atene e Pechino svaniscono a causa dei maledetti infortuni che lo hanno fatto sparire negli ultimi due anni dalle prime pagine dei mondiali ma, tra un recupero e l’altro, Andrew vince un’oro agli Europei di Goteborg (2006) e un argento ai Mondiali di Osaka (2007). Fiammate di questo “mostro d’interdisciplinarietà atletica” che, risolti i guai fisici, ha comunque l’avvenire assicurato.

Ma cosa prova Andrew, dopo 2 anni passati nell’ombra? “Un mix di sensazioni, tensioni, includo nella categoria anche quelle positive, che si associano alla preparazione fisica. Sensazioni che contano tanto, tantissimo”, perché “col tempo ogni atleta di esperienza impara a conoscersi, riconosce le sensazioni, i più piccoli stimoli che ci inviano il corpo e la mente, però sai anche che c’è  qualcosa che non puoi sapere prima, ogni gara è una storia a sé, ogni momento è unico e irripetibile”. Per Howe ogni gara rappresenta “una sfida con se stessi prima ancora che con gli altri e solo tu sai come stai, sai dove puoi arrivare, sai che i tuoi avversari vivono una condizione molto simile alla tua … ma non sai come andrà a finire”. È questo “il bello dello sport. Ci metti l’energia, la volontà, la determinazione, il lavoro, la condizione fisica, la testa e poi la cosa più importante”. Cosa Andrew? “Il cuore, naturalmente”.

L’avvenire di Howe però si chiama Olimpiadi, la sua bestia nera, a cui comincerà a pensare seriamente dal prossimo anno. “Visto come sono andate le mie altre due esperienze olimpiche la cosa mi fa un po’ paura (sia a Pechino che ad Atene a causa di malanni fisici non raggiunse le medaglie, ndr). Però anche quello è un tabù da affrontare e allora credo che inizierò a pensare a Londra molto presto e la mia marcia di avvicinamento a quello che per ogni atleta è il momento più importante di una vita inizierà già il prossimo anno”.


Qualsiasi donazione, piccola o grande, è
fondamentale per supportare il lavoro di VITA