Non profit

Il risparmiatore tradito.

Perche' i fondi (anche etici) sono sotto accusa.

di Francesco Maggio

Una strigliata come quella della settimana scorsa i nostri gestori davvero non se l’aspettavano. L’occasione: l’assemblea annuale di Assogestioni. L’autore: Vincenzo Desario. Cosa ha detto il direttore generale di Bankitalia di così graffiante da mandare su tutte le furie una platea, di solito, piuttosto compassata? Semplicemente ciò che pensano in tanti: che i fondi di investimento sono poco trasparenti. Certo, l’ha detto con il linguaggio e lo stile propri dell’istituto di via Nazionale: «La disaffezione del risparmiatore determinata da un risultato negativo può dipendere da una impropria rappresentazione delle caratteristiche del fondo da parte del venditore». Ma la sostanza del suo messaggio non cambia: la trasparenza nel mondo del risparmio gestito (compresi, quindi, i fondi di investimento) risulta una merce piuttosto rara. Immediata la reazione, alquanto piccata, del
neopresidente di Assogestioni, Guido Cammarano: «Non consentiamo a nessuno, neanche all’ufficio stampa di Bankitalia, di dire che i nostri gioielli di famiglia sono falsi». Naturalmente è seguita la controreplica dell’ufficio stampa dell’Istituto e, a quanto pare, il duello sembra destinato a riproporsi.
Perché ricordiamo questo episodio? Per una ragione molto semplice. Che richiede, però, una breve premessa. Oggi il fattore trasparenza nella finanza è al centro del dibattito economico internazionale. Dopo lo scoppio dello scandalo Enron non c’è Paese, a cominciare dagli stessi Stati Uniti, che non stia cercando di correre ai ripari per ridurre il più possibile le asimmetrie informative dei mercati. Il presidente americano Bush ha appena varato una sorta di decalogo per «prevenire», ha dichiarato, «l’emergere di conflitti, sospetti e crisi di fiducia» (anche se, in realtà, si tratta di poco più di enunciazioni di principio che lasciano cadere le proposte sui conflitti tra certificatori e consulenti). La Germania si è da poco dotata di un nuovo codice di corporate governance per le imprese che potrà essere adottato dalle stesse secondo lo spirito del comply-or-explain (se non aderisci devi spiegarci il perché).
In Inghilterra il dibattito sulla finanza facile è più che mai acceso e pesano come macigni affermazioni come quelle di John Kay, ex rettore della Said Business school dell’università di Oxford e attualmente alla London school of economics: «Il sistema americano» afferma, «basato sul massimo dell’avidità individuale e il minimo di controlli possibili è in discussione. è un sistema che non può funzionare e rappresenta un certo tipo di capitalismo versione fine anni 90 che è finito».
E l’Italia? Qui, sebbene ampiamente perfettibili, alcune regole a difesa della trasparenza ci sono. Si pensi al codice Preda. Che prevede che le società quotate nominino comitati per il controllo interno e amministratori indipendenti (cosa che negli ultimi due anni hanno fatto quasi tutte). O alla cosiddetta “legge Draghi” del 1998 e alle sue disposizioni in fatto di tutela delle minoranze (anche se fa riflettere, come notava di recente Alessandro De Nicola su Il Sole 24 ore, il fatto che in tre anni e mezzo nessuno si sia scomodato per utilizzarle e che non sia mai stata esperita un’azione sociale di responsabilità contro gli amministratori da parte delle stesse). La stessa reazione di Cammarano è salutare e denota un autentico, profondo interesse per temi così delicati. Inoltre, ed è questo il dato che più ci tocca da vicino, l’Italia sta diventando uno dei Paesi più appetibili per il lancio di fondi etici. Dall’inizio dell’anno hanno visto la luce già quattro nuovi prodotti e presto ne esordiranno altri. Una simile dinamica dovrebbe testimoniare che da noi il valore della trasparenza è più avvertito che altrove. Dovrebbe. Sì, perché se poi si parla con i responsabili di questi prodotti, non di rado si scopre che per loro la finanza etica è solo la mera applicazione di qualche criterio di esclusione: no armi, no tabacco, no alcool, ecc. Quando appena si accenna a politiche di engagement, a criteri di preferenza e a tutto quanto dovrebbe oggi far parte del bagaglio culturale di un esperto di socially responsible, allora si ha l’impressione di parlare una lingua incomprensibile. A questo punto sorge un dubbio: che si tratti solo di un effetto moda? Di marketing e basta? Visto che l’etica “tira”, tanto vale cavalcare l’onda. Che si tratti di questo almeno un sospetto sorge. Ben vengano allora critiche come quelle di Desario che smuovono le acque, toccano nervi scoperti, alimentano discussioni. Se la trasparenza è importante per i fondi, per quelli etici è indispensabile. È la ragione stessa della loro esistenza. E guai se viene meno. Una prova? Ha scritto a Ef Attilio (e, assieme a lui, molti altri lettori), per chiedere se esiste una lista di imprese socialmente responsabili su cui investire senza “passare” per i fondi comuni. Cos’è? Un sintomo di sfiducia nei fondi? O solo voglia di saperne di più?
Probabilmente entrambe le cose. Certamente un sintomo da non sottovalutare. Per questo, da questo numero, Ef inaugura un portafoglio di titoli sostenibili Vita-Avanzi. Un servizio per i lettori. E, perché no, anche per i gestori.

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