Cultura

Il rischio è il nostro mestiere

Il prete torinese gira con la scorta da anni: "Mi sono abituato a convivere con la paura"

di Redazione

Il vero rischio della carità non comincia quando si mette in gioco la propria vita, la carità è a rischio quando si fa elemosina senza lasciarsi coinvolgere. O quando si separa la carità dalla battaglia per la giustizia; quando si offre solidarietà senza reciprocità, magari solo per sentirsi più buoni, scegliendo le povertà meno scomode e selezionando i bisognosi secondo i propri bisogni, luoghi comuni o i propri pregiudizi. Il vero rischio della carità è, invece, diventare navigatori solitari come don Renzo Beretta, che aveva denunciato la sua solitudine e aveva gridato la sua ira per chiamare in causa istituzioni e autorità. No, la carità non è un questione di scelta, perché non si possono scegliere le persone che bussano alle nostre porte. Così come l?accoglienza non può essere a senso unico, accettare gli anziani ma rifiutare i travestiti; accogliere i malati, chiudere la porta ai clandestini. La carità di don Renzo sapeva essere vincolata al senso di giustizia. Lui sapeva che stava tappando dei buchi e che non ci si può permettere di lasciare la gente per strada perché la carità è senza condizioni. Davanti alla sua morte, ho provato un dolore molto profondo. La tragedia di questo coraggioso sacerdote comasco è la prova che non si può lottare e affrontare problemi così grandi da soli. Anch?io qualche volta sono rimasto solo e ho dovuto imparare a convivere con mia paura. Come quando, a causa del mio impegno contro la criminalità mafiosa, ho avuto dei seri problemi, ma ho dovuto ugualmente aspettare un po? prima che mi venisse garantita la tutela della mia persona. Giro scortato da tanti anni e mi sono abituato a convivere con la paura anche perché quando si va contro interessi e poteri forti come la mafia, si deve mettere in conto il rischio, la possibilità di essere colpiti. Ma questo non succede solo a me, succede a tanti che ogni giorno si impegnano e lottano per promuovere la legalità e la gioustizia, partendo dalle piccole cose di tutti i giorni. A Palermo come a Milano. Anzi, da questo punto di vista io sono un privilegiato perché abbiamo costruito un?organizzazione di solidarietà molto radicata nel tessuto sociale, un?organizzazione che ci permette di affrontare i rischi.L?esperienza di Libera, l?associazione che abbiamo fondato per contrastare la criminalità e si è battuta per ottenere la legge sulla confisca dei beni mafiosi e la loro riconversione in strutture di utililità sociale, è un esempio: oggi ci sono 700 gruppi, di cui molti al Sud. Si tratta di una rete molto vasta che serve anche da scudo per chi si espone in prima linea. Ma davanti a lutti come questi io soffro molto, perché capisco che abbiamo perso uomini di un valore straordinario e perché mi rendo conto ancora una volta che fare solidarietà equivale a essere soli. Molto è stato fatto in questo senso. Il rapporto con enti locali e istituzioni ha permesso alla società civile di avanzare, ma molto è ancora da fare. Non abbiamo bisogno di martiri né di eroi. Ognuno deve fare la propria parte, lo Stato, la società civile, gli enti locali, le autorità perché i nostri doveri sono i diritti degli altri.

Cosa fa VITA?

Da 30 anni VITA è la testata di riferimento dell’innovazione sociale, dell’attivismo civico e del Terzo settore. Siamo un’impresa sociale senza scopo di lucro: raccontiamo storie, promuoviamo campagne, interpelliamo le imprese, la politica e le istituzioni per promuovere i valori dell’interesse generale e del bene comune. Se riusciamo a farlo è  grazie a chi decide di sostenerci.