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Il rating del sociale nell’economia italiana

Sono 40 grandi aziende, big di settore per fatturato nel fashion, food, automotive e arredamento. Quello che una volta era il Made in Italy. Abbiamo cercato il loro impegno sociale nei bilanci e nei documenti ufficiali, in collaborazione con Altis Università Cattolica. Ecco che cosa è emerso: sugli scudi Brembo, Ikea, Coca Cola e Moncler mentre 15 aziende totalizzano "zero". Ne parliamo domani al Salone della Csr e dell'Innovazione

di Nicola Varcasia

È una top ten ricca di impegno sociale. Ma anche di conferme di quanta strada ci sia da fare. Con alcune colonne portanti del Made in Italy a “lottare” testa a testa con altri colossi dell’industria internazionale. Al primo posto, un’azienda che, lo vedremo, “non mette freni” all’esercizio della propria responsabilità sociale. In seconda posizione, la società produttrice del più iconico marchio di bevande gasate al mondo. Al terzo, invece, un brand sinonimo della tazzina di caffè, che resta un piacere, nonostante gli aumenti della materia prima lo stiano rendendo un po’ più amaro. A seguire, altri famosissimi esponenti delle classiche 4A del Made in Italy — abbigliamento, alimentare, arredamento, automotive – accanto a realtà meno note, poiché non impegnate direttamente in campagne di brand awareness.

La “S” esterna

Prima di esplorare questa classifica, che ha preso in considerazione le prime dieci aziende per ciascuno di questi quattro iconici settori dell’economia italiana, urge evidentemente qualche spiegazione. Quello che state leggendo è, infatti, un approfondimento su come alcune tra le principali aziende italiane interpretano gli aspetti relativi alla “S” dell’ormai noto acronimo Esg — Environmental, Social, Governance. Non la “S” per intero, ma le attività che le aziende attuano verso la comunità e il territorio. Ci inseriamo dunque nel lavoro che, da tre anni a questa parte, nel numero di ottobre, VITA sta dedicando alla valorizzazione della responsabilità sociale d’impresa e alla riflessione sistematica sulle ragioni per cui questa parte della “S” sia tendenzialmente meno sviluppata rispetto a quella ambientale.
Per impostare il lavoro, abbiamo chiesto lumi ad Altis, la Graduate school of sustainable management dell’Università Cattolica dedicata alla ricerca e formazione sulla sostenibilità d’impresa. In un dialogo con il suo direttore, professor Matteo Pedrini, siamo andati alla ricerca di possibili criteri sfidanti sui quali testare le iniziative sociali delle aziende: «La componente “esterna” della “S” è quella su cui è sempre stato più complesso individuare standard di valutazione e rendicontazione condivisi. Ed è anche uno dei terreni sui quali è più facile incappare nel socialwashing, motivo per cui molte aziende tendono a stare molto “abbottonate” su questo versante».

Le direttive stanno generando cambiamento

«Tuttavia, le società medie e soprattutto grandi, grazie anche alla spinta normativa delle direttive europee in tema di rendicontazione, stanno maturando crescente consapevolezza e interesse nel campo, con importanti strategie di integrazione nel business, risorse dedicate e disponibilità al coinvolgimento diretto degli attori sociali nei programmi “Social”. Ed è proprio questa l’ottica con la quale suggeriamo di guardare a tali programmi».
Per prima cosa, occorreva definire che cosa si intende per un’azienda italiana: consideriamo italiane le imprese che depositano il bilancio nel nostro Paese e qui pagano le tasse. Il secondo step è stato quello di individuare con esattezza i settori dai quali estrapolare le aziende: consultando la banca dati Bureau van Dijk, sono stati individuati i quattro settori del Made in Italy che ci interessavano e per ciascuno di essi sono state identificate le dieci aziende con il fatturato maggiore nell’ultimo bilancio depositato allo scorso primo giugno.

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