Cultura

Il rap in Italia è senza vita

di Lorenzo Maria Alvaro

Soldi, coca e mignotte. Seppur con diverse variazioni sul tema sembra proprio che il rap italiano non riesca a parlare di molto altro. Naturalmente c’è chi si è completamente dato al pop, come Fedez, o chi, come J-Ax (che avrebbe già tagliato il traguardo dei 43 anni, ma si sa: strategia che fa soldi non si cambia) a parlare di marijuana con il singolo “Maria Salvador” (una sorta di “Ohi Maria” 2.0). Tutto leggittimo. Quello che sembra proprio non trovare spazio sono quotidianità e cronaca. Che per un genere nato dai problemi, dalle difficoltà e dalle rivendicazioni sociali è qualcosa di abbastanza incredibile.

Che un artista, una volta uscito dal quartiere malfamato, dalle case popolari e dalla vita di strada, possa decidere di buttarsi sul popolare spinto e fare qualche soldo in più è cosa normale anzi giusta. Il problema è che in Italia per lo più gli esponenti del genere sono figli annoiati della ricca borghesia. Basti pensare ai Club Dogo di Jake La Furia, al secolo Francesco Vigorelli, figlio del notissimo pubblicitario Giampietro fino a Trava meno noto ma dal papà altrettanto illustre (Marco Travaglio).

Chiariamo subito, il problema non è morale né di purismo musicale. In Italia le cose vanno così e basta. Ma un certo disagio rimane se si guarda ad alcune esperienze oltre confine. Perché occorre dirlo: chi dice che il rap italiano è tutto uguale e, per lo più, di basso livello contenutistico ha ragione. Ma non c’entra il genere musicale, il problema è chi lo fa e per cosa.

Basti pensare che nel campo profughi Bourj al Barajneh, a sud di Beirut, è proprio il rap la lingua scelta da Yaseen (20 anni) e Tnt (19) per raccontare la propria vita (la Bbc ha fatto della loro storia un documentario).

O al palestinese MC Tamarrod che nel campo profughi di Nahr al-Bared in Libano racconta miseria e violenza.

Lo stesso vale per Manar, palestinese profugo in Siria divenuto celebre anche grazie al documentario “Io sto con la sposa”. Ha 12 anni e il rap è la sua grande passione. I pezzi li scrive lui, e nelle sue canzoni racconta la Siria, la guerra, il viaggio e la sua voglia di cantare. Quello di Marsiglia (nel video) è il suo primo concerto dal vivo. Manar è in viaggio con il padre, Alaa. Sono una famiglia di palestinesi siriani di Damasco, del campo profughi di Yarmouk. In Sicilia sono arrivati a settembre 2013, dopo 12 giorni alla deriva su un vecchio peschereccio salpato di contrabbando dall’Egitto. Prima di conoscere i registi di Io sto con la sposa, Alaa aveva pagato un contrabbandiere perché li portasse in Svezia, ma erano stati fermati dalla polizia prima della frontiera francese, perdendo così tutti i soldi. In Siria ci sono ancora la madre di Manar e i suoi due fratelli. Alaa ha scelto di portare con sé Manar, perché è convinto che in Europa possa diventare un rapper di successo.

Ci sono anche gli afghani Habib, Hussein e Haris, che hanno dato vita al progetto rap Ekhtelaf. Non un gruppo ma un movimento che intende costruire dall’esilio una nuova idea di Afghanistan.

Ma c’è movimento anche in Europa. Il collega Marco Dotti ha raccontato su Vita.it dell’esperimento pensato dal rapper finlandese Paleface sempre sul tema dei migranti. O il caso dell’artista Raoul Haspel che in Austria ha deciso di incidere un minuto di silenzio e metterlo in vendita su iTunes per raccogliere fondi in favore dei profughi. Inutile dire che è in cima alle classifiche di vendita.

Intanto i nostri gangster da salotto chiaccherano con Maria de Filippi, giudicano ai talent show e si insultano con qualche politico su Twitter. Insomma a quanto pare la differenza la fa la vita, o meglio l’aver rinunciato a vivere per recitare il proprio piccolo ruolo nella grande recita del tubo catodico.

 

 

 

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