Mondo

Il racconto di Capitan Michele: “23 giorni senza mangiare, così sono sopravvissuto all’inferno libico”

Da un primo inventario nel peschereccio Antartide si stima un danno di circa 300 mila euro. Non appena sequestrati i pescatori le milizie libiche hanno rubato l’attrezzatura di bordo, ma soprattutto il pescato. Ben 1992 chili di gambero rosso. Michele Trinca racconta i continui maltrattamenti e i trasferimenti tra un carcere e un altro: “Nudi davanti al muro e con i mitra puntati addosso. Ci siamo sentiti abbondonati dallo Stato”. I pescatori che il giorno della liberazione speravano di incontrare Di Maio e Conte ora chiedono che venga nuovamente istituita la zona di vigilanza pesca e tracciati definitivamente i confini con le acque libiche

di Alessandro Puglia

Nella mano sinistra una torta con scritto “Bentornato Capitano Michele”, nell’altra un attestato di merito da parte dell’armatore Leonardo Gancitano. Sullo sfondo l’albero di Natale preparato dalle figlie Ilaria, Margherita e dalla moglie Paola, non appena appreso della liberazione.

Michele Trinca, 63 anni, è il capitano del peschereccio Antartide. Aveva salutato la sua famiglia il 20 agosto per andare a lavorare, quel lavoro che da 45 anni svolge con grande professionalità e dedizione: «Sono un uomo senza vizi, ma non toglietemi il mare», ripete il capitano che oggi dopo 108 giorni di prigionia in Libia si dice vivo per miracolo.

L’1 Settembre il peschereccio da lui capitanato, l’Antartide, insieme agli altri pescherecci Medinea, Anna Madre e Natalino vengono affiancati dalle motovedette libiche: «non avevano neanche una divisa, hanno cominciato a sparare in aria e con i mitra puntati addosso ci hanno fatti salire sulla loro motovedetta». I due pescherecci Anna Madre e Natalino, pur senza i loro capitani, riescono a fuggire, tutti gli altri 18 pescatori vengono accompagnati in porto a Bengasi per poi essere trasferiti in una prima prigione: «I capitani dei due pescherecci che erano ormai senza le altre due imbarcazioni sono stati picchiati alle ginocchia, con noi non hanno usato violenza, ma ci hanno trattato come le bestie, facendoci viaggiare di notte da un carcere all’altro, spingendoci dentro un blindato dove eravamo tutti ammassati». Il capitano Michele di carceri a Bengasi insieme agli altri pescatori ne ha cambiati tre: «Nei primi giorni penso di aver avuto un’intossicazione, il cibo era scarso e pessimo, sono stato 23 giorni senza mangiare, ho chiesto di essere accompagnato nell’ospedale più vicino, ma non c’è stato niente da fare. Chiedevamo una telefonata con la nostra ambasciata, neanche quello», racconta il signor Trinca che oggi pesa quindici chili in meno da quel 20 agosto in cui ha salutato la famiglia.

«Non so neanch’io come sono sopravvissuto, gli altri pescatori che sono più giovani di me pensavano che non ce l’avrei fatta, ho pregato tanto, non soltanto per me, ma per tutti i detenuti, per i malati. La fede e l’amore della mia famiglia mi hanno salvato in quei momenti terribili», racconta il capitano che fa anche riferimento all’unico momento in cui è stato possibile chiamare i familiari in collegamento con la Farnesina dopo l’ennesimo trasferimento. La famosa chiamata dell’11 novembre.

«Pensavamo che ci stessero liberando, invece ci hanno portato nuovamente in carcere e siamo restati lì ancora un altro mese. In quel momento abbiamo pensato che qualcosa nella trattativa tra Italia e Libia fosse andato storto. Ci siamo sentiti dimenticati dal Governo italiano. Quando ci hanno liberato ci hanno detto che Conte e Di Maio erano a Bengasi, sinceramente ci avrebbe fatto piacere vederli, anche soltanto cinque minuti per avere un incoraggiamento, un segnale che lo Stato è stato presente», aggiunge Trinca che descrive così i trasferimenti avvenuti da un carcere all’altro: «Ci spogliavano e ci mettevano nudi davanti al muro con i mitra puntati addosso, in tre mesi ci siamo potuti cambiare una sola volta, ci hanno rubato tutto, a me hanno portato via anche le fedi, quella nuziale e quella dei 25 anni di matrimonio. Ci davano da mangiare da una piccola fessura, le celle erano completamente buie e avevamo un solo bagno turco da condividere. E non ci concedevamo neanche una mezz’oretta d’aria. Sono state tutte e tre carceri durissime».

Tra fede e paura il capitano del peschereccio Antartide racconta altri terribili momenti vissuti nei 108 giorni di prigionia: «sentivamo le urla delle torture che subivano gli altri detenuti, grida, colpi di bastone e pensavamo che sarebbe accaduto presto anche a noi», aggiunge capitan Michele che ora insieme a tutti gli altri pescatori chieda che venga istituita nuovamente e al più presto una zona di vigilanza pesca nel Mediterraneo: «Fino a qualche anno fa la Marina Militare ci proteggeva, quest’estate è capitato a un mio collega di chiedere un affiancamento, la risposta è stata negativa perché non avevano quella mansione, ma altri ordini da eseguire.

Il capitano del peschereccio Antartide si unisce all’appello di tutti i pescatori siciliani: «I libici non possono attribuirsi 72 miglia, non è scritto e tracciato da nessuna parte».

A maggio 2019 Vita attraverso un’inchiesta aveva dimostrato come non ci fosse alcuna tutela in mare nei confronti dei pescatori che si avvicinano al golfo di Bengasi, dimostrando come la zona economica esclusiva tanto reclamata dalle milizie in mano ad Haftar non trova alcun fondamento nel diritto internazionale e marittimo. Una zona autoproclamata che non è stata mai formalmente accettata dalle Nazioni Unite e che ha sempre avuto parerei contrari da parte dei maggiori paesi europei, Italia compresa. «Il Governo e gli stati europei si devono impegnare una volta per tutti a spiegare ai libici che non sono i padroni del Mediterraneo. Ci dicano fin dove possiamo andare a lavorare e noi lo rispetteremo, ma loro di certo non possono attribuirsi 72 miglia».

Chissà se il caso dei 18 pescatori di Mazara del Vallo sequestrati per 108 giorni possa essere la volta buona per porre fine a una disputa tra Italia e Libia che va avanti sin dai tempi di Gheddafi. Nel frattempo gli armatori fanno la conta dei danni e da un primo inventario si nota che le milizie libiche hanno rubato dai pescherecci tutto quello che potevano, per un danno economico complessivo almeno per il peschereccio Antartide di circa 300 mila euro: oltre i cellulari, i vestiti e le fedi, si sono trattenuti i computer di bordo, Gps, Vhf, i gommoni di salvataggio, l’olio del motore, gli imballaggi, la cucina, la spesa, le medicine, le macchine del caffè, ma soprattutto è stato trattenuto tutto il pescato. Ben 1992 chili di gambero rosso, per un valore che si aggira intorno ai 50, 60 mila euro.

«In genere un pescatore che fa pesca d’altura come noi arriva a guadagnare intorno a 1200 euro al mese, in questo caso il guadagno sarebbe stato per me di 12 mila euro diviso in quattro mesi. Mia moglie ha ricevuto un piccolo contributo di tre mila euro, attraverso l’interessamento del nostro Vescovo, sappiamo che sono stati predisposti dei fondi. Quando arriveranno, boh, non lo sappiamo» conclude il coraggioso capitan Michele. Un lupo di mare come lo etichetta la figlia Ilaria. Oggi tutti qui sperano che il Governo italiano ascolti finalmente le richieste dei suoi pescatori. Per sentirsi più protetti, sicuri, liberi di andare a lavorare in quelle acque internazionali dove il mare è profondo e ricco di pesci. Perché ciò che è accaduto ai 18 pescatori testimoni di ciò che avviene nel Mediterraneo non si ripeta mai più.

Cosa fa VITA?

Da 30 anni VITA è la testata di riferimento dell’innovazione sociale, dell’attivismo civico e del Terzo settore. Siamo un’impresa sociale senza scopo di lucro: raccontiamo storie, promuoviamo campagne, interpelliamo le imprese, la politica e le istituzioni per promuovere i valori dell’interesse generale e del bene comune. Se riusciamo a farlo è  grazie a chi decide di sostenerci.