Medio Oriente

Il rabbino di Firenze: «Non può esistere pace senza riconoscimento reciproco»

Il rabbino capo di Firenze, Gadi Piperno, ha partecipato alla marcia senza appartenenze, ideologie e bandiere organizzata da padre Bernardo Gianni. Insieme a lui anche l'imam Izzedin Elzir. «Rispetto alla marcia», dice il rabbino, «non c'è stata una partecipazione formale della comunità ebraica, ma abbiamo lasciato ai singoli la scelta sul se e come partecipare. A Firenze c’è un contesto culturale che ha favorito il dialogo tra le comunità diverse, non succede ovunque»

di Anna Spena

La sera del 23 ottobre, a Firenze, convocati da padre Bernardo Gianni, l’abate di San Miniato al Monte, insieme a migliaia di cittadini hanno camminato per la pace in Medio Oriente il rabbino capo Gadi Piperno e l’imam Izzedin Elzir. Lo abbiamo raccontato in questo pezzo “Un monaco, un rabbino e un imam sfilano per la pace, a Firenze”.

Sono giorni drammatici. Dopo il feroce attacco terroristico di Hamas e la risposta indiscriminata del governo di Israele sulla Striscia di Gaza, è più facile rimanere bloccati nella spirale di odio che lavorare insieme per la costruzione della pace. Pace che oggi sembra una parola svuotata di senso, mentre invece lo sforzo per la pace dovrebbe essere una chiamata collettiva. «Insieme dobbiamo unire le nostre anime per gridare sì alla pace, no alla guerra», ha raccontato in una intervista a VITA Izzedin Elzir, l’iman di Firenze. Qui trovate l’articolo integrale “L’imam di Firenze: «Iniziative di pace in moschea e in sinagoga»”. E ancora: «Desideravo che la fiaccolata fosse un momento di meditazione, condivisione e speranza. Un grido trasversale per la pace», ha  raccontato l’abate Bernardo Gianni, che ha fatto nascere l’iniziativa. Qui trovate l’intervista integrale “La preghiera per imparare a sperare contro ogni speranza”. VITA ora intervista il rabbino capo della comunità ebraica di Firenze, Gadi Piperno. 

Cosa ha rappresentato per la comunità ebraica la marcia di Firenze?

Credo che lo racconti bene il comunicato che abbiamo diffuso il giorno prima. “La Comunità Ebraica di Firenze ringrazia Padre Bernardo e tutti quanti si sono spesi per l’organizzazione della fiaccolata di domani, lunedì 23 ottobre. Abbiamo apprezzato particolarmente l’idea di una marcia silenziosa, senza parole né slogan né bandiere, alla quale partecipino le cittadine e i cittadini di una collettività scossa dagli eventi del 7 ottobre, e ringraziamo le associazioni, istituzioni, i singoli – la società civile che ha risposto con tanta partecipazione a questo invito. Apprezziamo anche il desiderio di Padre Bernardo di stringersi in consolazione intorno alla comunità ebraica e a quella islamica. Da parte nostra, ne abbiamo voluto parlare insieme oggi in assemblea, che ha confermato l’apprezzamento per l’invito, e soprattutto l’anelito alla pace che invochiamo non meno di tre volte al giorno nelle nostre preghiere. Viviamo ancora immersi nel profondo dolore per ciò che è accaduto e ancora accade, di fronte a salme ancora insepolte di innocenti trucidati. Viviamo nell’angoscia per il destino di più di duecento persone a oggi nelle mani del terrore. È un dolore vivo e recente, ancora impossibile a essere consolato, il rispetto del quale ci impedisce di invitare i nostri iscritti a prendere parte tutti al corteo. Lasciamo ai singoli la scelta sul se e come partecipare. Non ci sarà dunque una partecipazione istituzionale formale della Comunità, né ci sarà il Presidente della Comunità, rappresentante di ogni singolo iscritto. Al contempo, è per noi così importante dare risposta a un momento di condivisione cittadina come questo, che non possiamo esimerci dal mandare un segnale di presenza: il rabbino capo Gadi Piperno sarà dunque al corteo per rappresentare l’animo della nostra Comunità, diviso e immerso nell’angoscia ma pronto ad accogliere la solidarietà della città”. Come si legge nel comunicato, la comunità formalmente ha scelto di non partecipare per una ragione semplice: la comunità è ancora sotto shock, è una comunità in cui ciascuno conosce qualcuno che conosce delle vittime o degli ostaggi o che comunque è stato pesantemente coinvolto. Questo lutto non è nemmeno iniziato, visto che ancora molte delle vittime devono essere riconosciute e non sono state sepolte, e quindi non è stato ancora elaborato: c’è bisogno di tempo per poterlo fare. Tuttavia il contesto era talmente importante e apprezzabile nel suo invito che la comunità ha deciso di inviare il proprio rabbino, non in rappresentanza di tutti i singoli membri della comunità, ma proprio come segno di apprezzamento per quello che si proponeva. Quindi per noi esserci ha significato stare insieme a una cittadinanza bella, a una cittadinanza che non ha portato bandiere ma ha condiviso il dolore per le vittime. È stata importante anche la richiesta chiara di rilasciare immediatamente gli ostaggi. 

In Italia, e non solo, si percepisce questo schiacciamento tra due polarizzazioni opposte. Come usciamo da queste polarizzazioni? L’obiettivo di tutte le comunità cristiane, ebraiche, musulmane e non solo, che ora non si trovano né in Israele né in Palestina, non dovrebbe essere quello di lavorare per un cessate il fuoco su Gaza e per la liberazione degli ostaggi?

La sua domanda non tiene conto di alcuni aspetti. Come comunità ebraica siamo coinvolti con quello che sta accadendo in Israele. Ognuno di noi ha dei parenti, ognuno di noi ha degli amici che sono stati al funerale di un amico o conoscono qualcuno che è stato rapito da Hamas, il cui operato ci ha riportato ai pogrom dell’Europa orientale di un secolo fa. Non siamo fuori da questo discorso, ci stiamo dentro fino al collo. Questo dolore, peraltro, è il motivo per cui la comunità non si è sentita di aderire formalmente alla marcia. 

Giuseppe Momigliano, rabbino capo di Genova, ha invitato a contenere la visione delle immagini più crude che arrivano da Sderot e dai Kibbutzim: “lo shock di quelle immagini ci rende più difficile ragionare e agire”. A Roma, invece, durante la cerimonia in Sinagoga per i parenti degli ostaggi israeliani, il rabbino ha fatto ascoltare ai presenti l’ultima telefonata di un ostaggio a suo padre. Lei l’avrebbe fatto?

Io penso che le due cose non siano incompatibili perché penso che rav Momigliano si riferisse alle immagini crude dell’attacco al rave party e degli orrori visti nei centri attaccati il 7 ottobre. E posso senz’altro condividere il suo invito. Noi, dopo quello che abbiamo visto e sentito ad alcune manifestazioni, tra cui “bruci Tel Aviv” e “aprite la barriera che vi ammazziamo tutti”, non riusciamo ad astrarci. Pensare di sospendere il giudizio su quello che è successo e far finta che non sia successo non è la soluzione. Condividere l’angoscia, cioè far sentire una voce di chi è stato preso in ostaggio non significa voler alzare l’animosità delle persone, significa condividere il dolore di qualcuno a cui si tiene, che è una cosa molto diversa. Non è nascondendo queste cose che si risolve il problema. Anzi è il contrario: i problemi vanno affrontati, senza necessariamente far vedere le immagini più crude. 

Come sono i rapporti in città con la comunità islamica?

Qui il dialogo non è mai mancato. Ed è stata una comunicazione costruttiva. Questo dipende anche dalla città di Firenze, che per molti versi è molto diversa da altri luoghi. Chiaramente in questi frangenti partiamo da posizioni diverse. Però ho apprezzato da parte dell’Iman il fatto che abbia condannato quello che è successo il 7 ottobre, cosa che non tutti hanno fatto. 

Lei è la guida spirituale della sua comunità. Come si arginano le manifestazioni di odio, verbale e fisico nei confronti dell’una e dell’altra comunità? Come facciamo a tenere un dialogo aperto tra la comunità islamica e quella ebraica?

Io posso parlare di Firenze, e ribadisco che qui il rapporto con la comunità islamica è buono. Con l’Imam ci sentiamo spesso e discutiamo di quello che succede, di quello che va e di cosa non va. Ripeto, so che questo rapporto, purtroppo, non funziona ovunque. A Firenze c’è un contesto culturale che ha favorito questo dialogo. Una città in cui la cultura è un elemento fondamentale. Una città che ha avuto un sindaco come Giorgio La Pira, che ha lavorato tantissimo per creare delle piattaforme in cui tutti potessero parlarsi. Un progetto di costruzione che ha richiesto diversi decenni. 

Cosa possiamo fare per arginare l’odio che sta nascendo nei confronti di entrambe le comunità? La marcia di Firenze quanto è stata importante? Dovremmo provarci anche in altre città d’Italia?

Sì, ma solo se organizzate bene e su principi chiari com’è stato fatto a Firenze, dove la manifestazione è stata non urlata, senza bandiere, e di vicinanza al dolore. Se l’obiettivo è la pace – e parliamo di una pace che esca anche dal conflitto mediorientale – credo che esistano degli ingredienti che non possono venire meno. Ingredienti senza i quali, e lo dico tra virgolette, mi lasci usare questo termine, la pace non può “scoppiare”. Perché non ci può essere pace se non c’è libertà, e la vera libertà non è quella di poter fare ciò che ci pare ma è la possibilità di partecipazione politica da parte di tutti, cosa che rende le leadership davvero rappresentative. Ma la partecipazione richiede l’assunzione delle proprie responsabilità, che qualche volta significa poter dire anche “ho sbagliato”. E assumersi le responsabilità significa assumersele anche nei confronti degli altri, e qui veniamo al riconoscimento reciproco: che è l’ingrediente fondamentale della costruzione della pace. La pace, a cui tutti veramente aspiriamo, rimane solo una parola, un anelito, se non ci sono gli ingredienti che ho appena descritto: altrimenti è solo un’interruzione tra periodi di conflitto. In Italia e in Europa sappiamo bene cosa significa libertà, partecipazione politica, responsabilità e riconoscimento reciproco e quanto non sia stato facile arrivarci.

Quando parla di riconoscimento reciproco immagino si riferisca al fatto che la comunità palestinese deve riconoscere quella israeliana e viceversa?

Se si intende tra israeliani e palestinesi, certamente. Non ci può essere pace senza un riconoscimento reciproco, questa mi sembra una cosa che dovrebbe essere scontata, ma che in realtà non sempre lo è. Riconoscersi per quello che si è, per i propri diritti. Dire alla persona, allo Stato, alla Nazione che si ha davanti che ha il diritto di esistere per quello che è. Ecco questo è un elemento fondamentale, raggiunto il quale diventa possibile un reale sogno di pace.

Foto fiaccolata Firenze – profilo twitter Bernardo Gianni OSB

Cosa fa VITA?

Da 30 anni VITA è la testata di riferimento dell’innovazione sociale, dell’attivismo civico e del Terzo settore. Siamo un’impresa sociale senza scopo di lucro: raccontiamo storie, promuoviamo campagne, interpelliamo le imprese, la politica e le istituzioni per promuovere i valori dell’interesse generale e del bene comune. Se riusciamo a farlo è  grazie a chi decide di sostenerci.