Welfare

Il quinto rischio dell’innovazione sociale

di Flaviano Zandonai

Sono stato a un seminario sulla social innovation. Anzi no, mi correggo. Sono stato a un incontro che sotto le mentite spoglie di un seminario voleva fare un pò di marketing per mettere assieme una proposta progettuale sul tema da sottoporre a non ben precisati contatti di Bruxelles. Una tecnica molto in voga tra i lobbisti di nuova generazione che merita un post tutto per sé. Durante la presentazione – un pò stiracchiata perché l’obiettivo era di arrivare al famoso “dunque” – passa una slide dedicata ai rischi associati all’affermazione del nuovo concetto – paradigma. Al punto cinque, il “re-naming” o, in termini un pò meno di tendenza, il riciclaggio di cose già vecchie e più che sperimentate in un alveo che non è solo di significati ma anche, e soprattutto, di politiche e di finanziamenti. Insomma c’è il rischio di una clamorosa operazione di riverniciatura utilizzando un concetto fashion (questo era il rischio 4 credo) che, non si sa ancora per quanto, si vende ancora bene al mercato delle idee. Fine presentazione. Dibattito. E che succede? Una clamorosa materializzazione del rischio cinque con una gara, che qualche osservatore ha avuto l’acutezza di notare, a far salire sul carro della social innovation tutto il possibile e l’immaginabile: ict, conoscenza, welfare locale e naturalmente… imprenditorialità sociale. Era solo un primo confronto. Non oso immaginare cosa succederà in fase di progettazione. Perché al netto della qualità espositiva, esiste un problema costitutivo su ciò che è innovazione sociale. E questo limite definitorio fa sì che il termine venga utilizzato più con una funzione “catch all”, piuttosto che per disegnare un ambito che aiuta a sintetizzare, a scremare, a fare, per l’appunto, innovazione.

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