Da quando frequento questo mondo del cosiddetto terzo settore sento spesso parlare di “volontariato puro” implicitamente contrapposto a quello “impuro”. Quello puro sarebbe quello basato su un marchio di gratuità doc 100%: non solo non esiste corrispettivo economico per l’opera prestata, ma non dovrebbe nemmeno esistere, a parere dei suoi paladini, un contesto economico o monetario in cui esso si inserisca.
Per definire questa forma di volontariato spesso si sente parlare di “quarto settore” come distinto da un terzo settore che sarebbe sempre più “corrotto” da logiche economiche. La formula del quarto settore è entrata anche nel dibattito della riforma del terzo settore: alcune critiche a certi principi della riforma hanno sventolato la bandiera del quarto settore. Le richieste ruotano intorno al tema di una più forte tutela per il volontariato puro che non può essere contaminato da logiche economiche.
Quarto settore è stato anche il tentativo, molto discutibile, di Confindustria di ritagliare la parte più smaccatamente business del terzo settore, svincolarla da lacci e lacciuoli e lanciarla nel paradiso dell’economia dove, pare, esista un posto ancora libero per il sociale.
Poco più di un anno fa, il 25 settembre del 2014, si svolse a Roma un convegno organizzato da Confindutria e Comunità San Patrignano intitolato “L’Economia sociale e di mercato e la finanza sociale” che come sessione finale ne aveva una dal titolo “Verso il Quarto Settore: nuove idee per un’economia sociale di mercato”. Come dire che terzo settore sia roba anacronistica perché contiene cellule che non producono reddito.
Questi due contrapposti approcci al presunto “Quarto settore” sono legittimi, ma paiono più una caricatura forzata di realtà che hanno già diritto di cittadinanza dentro al mondo non profit. La cui ricchezza, e insieme debolezza, risiede ancora nella grande biodiversità che lo caratterizza.
Il primo approccio, quello del quarto settore come volontariato puro, è sulla carta molto nobile, ma sbagliato di principio: perché il volontariato non è un settore o una materia, “ma un modo d’essere della persona nell’ambito dei rapporti sociali, uno schema generale d’azione nella vita di relazione, basato sui valori costituzionali primari della libertà individuale e della solidarietà sociale”. Lo scriveva nel 1992 la Corte Costituzionale, esprimendosi sulla legittimità Costituzionale della Legge Quadro sul volontariato (la 266/1991). Una sentenza storica, un manuale di diritto costituzionale in materia di solidarietà e sussidiarietà. Non è un settore quindi, ma è il principio verso cui dovremmo dirigere la dinamica dei rapporti fra le persone.
Sembrano questioni di lana caprina, ma non lo sono. Perché significa non relegare la solidarietà alla residualità, ma assumerla come principio che orienti la sfera pubblica e la sfera privata. Non roba da specialisti, ma valori “di moda” tanto per intenderci, usando un linguaggio più semplice. C’è molto dono in economia, almeno quanto ce ne dovrebbe essere nella sfera pubblica. Si capisce bene allora come sia già vecchia la definizione di terzo settore. Figuriamoci il quarto.
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