Volontariato
Il professore, il bancario, la pensionata: ecco i volontari Facebook (o Whatsapp)
Da Faenza, Imola, Castel Bolognese, i volti di chi è si è mobilitato consultando la pagina cittadina del famoso social o chi ha risposto alla chat del parroco. Storie di volontariato informale
di Redazione
Entrano nelle case degli alluvionati con un misto di timore e gentilezza, quasi in punta di piedi.
Perché, dicono, in quelle stanze intime ci sono trenta anche quarant’anni di storia e da estranei si ritrovano fra le mani gli oggetti di una vita. Si prendono cura dei loro vicini di casa, dei loro amici e di quella rete fitta fitta di rapporti che è una sorta di famiglia allargata (che poi è là dove c’è comunità). E non chiamateli “angeli del fango”: perché i volontari per caso dell’alluvione in Emilia Romagna (proviamo a chiamarli così), quelli che non fanno parte di alcuna organizzazione, quelli che si muovono in autonomia, della retorica non sanno che farsene. Preferiscono una pala, un badile per spalare fango, una carriola per spostare oggetti, e magari una chat o una pagina sui social network: strumenti di cui si sono serviti per organizzarsi. Perché nella settimana dell’alluvione sono diventati veramente tanti. Allora, anziché definirli e confrontarli (peggio ancora, contrapporli) ai volontari delle organizzazioni più note, ecco, raccontare chi sono e da dove vengono è forse la scelta più sensata. Sono tanti, si diceva, sono ragazzini, studenti, universitari, liberi professionisti.
Infangati in piazza a suonare e cantare
C’è Francesco Chiari, 38 anni, insegnante. «Sono un cittadino di Faenza», si racconta, «uno di quelli che sono stati risparmiati dall’alluvione e sto dando una mano a chi ha bisogno». Che poi vuol dire «spalare nelle case, nei locali e nei seminterrati che sono ancora immersi nel fango. Soprattutto – precisa – quelli del borgo fuori dal comune».
Strutture di parenti e amici «che liberiamo, aiutandoci con delle pompe che tirano su l’acqua, cercando di recuperare il recuperabile». Francesco, docente di italiano all’IP Persolino-Strocchi di Faenza, originario di Marradi (a cinquanta chilometri, nella Romagna toscana), ha avuto già esperienza come «volontario nella Caritas diocesana e do una mano alle realtà locali». Ma è la prima volta in un’emergenza da Protezione Civile. «Sono partito dalle persone più vicine a me, prima dai genitori della mia compagna, poi da una mia amica a spalare e pulire». Francesco ricorda le difficoltà della sua amica. «È sola, con una figlia, non aveva nessuno. In un giorno e mezzo ho ripulito cantina e garage». A definire la traccia dell’impegno è il passaparola, anche digitale. «Mi coordino con gli altri volontari su Whatsapp e sulla pagina di Facebook “Sei di Faenza se…” e riusciamo a capire chi ha più necessità, in base all’ordine del bisogno e anche alla presenza sul posto di altre persone. C’è chi ha molto aiuto e chi non ne ha proprio».
Chiamatela disintermediazione, chiamatela necessità. Fatto è che su quelle chat si capisce anche di cosa c’è bisogno. «C’è chi mette a disposizione stivali, pale, badili e macchinari di ogni tipo». C’è il «barista che offre la colazione a chi fa il volontario» e «molti, anche da fuori Faenza, lasciano anche il loro numero di telefono. “Ho due braccia e un badile. Dove c’è bisogno?” E sotto la risposta». La fatica è tanta, ma «vedere la felicità e le lacrime delle persone» non ha uguali. E anche tra volontari il legame che si crea è fortissimo. «Dopo aver lavorato tutto il giorno, sabato ci siamo visti in piazza a Faenza. “Chi c’è porti qualcosa da mangiare”. Ci siamo ritrovati infangati dalla testa ai piedi in migliaia a suonare e cantare. Ecco così capisci di essere parte di una comunità». Oggi Francesco torna nella zona del borgo «per dare una mano».
La chat di don Beppe
Da Faenza ad Imola, dove c’è un gruppo di volontari anche loro per caso, che però hanno un motore potente che li spinge quando c’è da mettere mano a vanga e badile. Lui si chiama Giuseppe Tagariello: don Beppe, 82 anni, ha radunato intorno a sé più di 150 volontari dell'Oratorio imolese di cui è rettore. Dario, 48 anni, progettista meccanico, è uno di loro. «Don Beppe? È il riferimento per smuovere le persone. Quando ci dice andate, noi andiamo» dice subito. «Prima di tutto», racconta poi, «mi sono assicurato che la casa dei miei genitori fosse in sicurezza». Dario e gli altri di don Beppe si sono organizzati così. «Abbiamo iniziato ad usare una chat per aiutare un amico comune». Uno strumento che è servito anche per altre situazioni. «In poco tempo siamo diventati 170». Il passaparola ha portato ad incrociare la chat «con altri gruppi. Ci siamo sentiti stamattina. Oggi si parlava di dirottare tutto verso i canali ufficiali. Non ci mettiamo in alternativa. All’inizio c’era da correre». Ora, che sono diventati tanti, si mettono a disposizione. Dario non ha mai fatto il volontario. «Sono intervenuto in realtà che conoscevo, ho aiutato amici o amici di amici, dove avevo un legame personale insomma. Però poi a Castel Bolognese (Ravenna) sono stato ovunque. Andavamo letteralmente in giro per capire chi aveva bisogno». La felicità? «Vedere la gente che prima non aveva niente e poi aveva una casa».
Matteo, che porta i volontari «dove c’e bisogno»
Nel gruppo di don Beppe c’è anche Matteo Sembianti, 50 anni, che lavora in banca, alla Cassa di Ravenna, e si occupa di finanziamenti agricoli. «È stata un’esperienza tosta. Ma ho visto gente arrivare da ogni dove e mettere a disposizione il proprio ingegno per sturare tombini e risolvere situazioni critiche. Ho trascorso sabato e domenica a portare in giro i volontari, li portavo dove c’era bisogno». Matteo racconta di tanti ragazzi «che vagavano per Castel Bolognese, chiedendo se ci fosse bisogno di aiuto». Intanto, già si pensa al dopo. «La cosa più importante è capire che l’emergenza non finisce qui. Ci saranno mesi e mesi di gente senza casa. Ci sarà da lavorare». Logistica, interventi sul posto, coordinamento, ma non solo. Mettersi a disposizione per portare conforto a chi era direttamente impegnato. Di questo si è occupata Annalia Guglielmi, 70 anni. «Ho un problema al tendine», racconta, «che mi ha impedito di stare in prima linea. Ho sostenuto i volontari portando loro cibo e supporto. Anche facendo due chiacchiere». Pure Annalia parla della chat di don Beppe. «Ci è cresciuta incredibilmente tra le mani. Mi ha impressionato la quantità e la varietà di persone che si sono lanciate in questo lavoro, tra l’altro durissimo: il fango è pesante, ci sono mobili da smontare e spostare». Con una potenza di questo tipo «siamo andati ovunque ci fosse necessità».
Nella foto di apertura, di Francesco Chiari, volontari in piazza a Faenza.
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