Formazione

Il primo rapporto sul non profit milanese

un'ampia sintesi del rapporto presentato dalla fondazione Ambrosianeum

di Redazione

La Fondazione Ambrosianeum presenta il primo “Rapporto sul settore non-profit milanese”. E’ il frutto dell’attività dell’Osservatorio sul settore, costituito nel 1999. Questa ricerca nasce sulla scia dell’esperienza decennale del “Rapporto sulla città”, da tutti riconosciuto come importante punto di osservazione indipendente e rigoroso su Milano. L’obiettivo dell’Osservatorio sul non-profit è ambizioso. Non è solo un salotto culturale o di ricerca, ma svolge anche un’attività di promozione e di stimolo per un settore che presenta prospettive di sviluppo, insieme a forti freni normativi e debolezze strutturali proprie. Luci e ombre del settore sono ben evidenziati nel “Rapporto”, che rappresenta il primo tentativo sistematico di analisi e che contiene indicazioni operative. Un’iniziativa ancor più significativa, perché lanciata nella città sede dell’Authority degli enti non-profit, rispetto alla quale l’Osservatorio dell’Ambrosianeum intende diventare un interlocutore propositivo. La Fondazione si sta aprendo anche a una dimensione internazionale: è in corso la stipulazione di un accordo con l’ICNL (International centre for non-profit law) di Washington, un network internazionale, collegato alla Banca Mondiale, che si occupa di legislazione non-profit nel mondo. L’Ambrosianeum ne diventerà il referente italiano. Di seguito un’ampia sintesi del Rapporto. Il non-profit strategico per il futuro di una città che non sia crudele verso chi non può pagare un prezzo di mercato per soddisfare i propri bisogni Dallo Stato sociale alla socialità dello Stato. Marco Garzonio (presidente della Fondazione Ambrosianeum) nella presentazione sottolinea la funzione fondamentale del settore non-profit nell’attuale stagione di profondi cambiamenti sociali e politici. La crisi del Welfare, la competizione internazionale che richiede un’organizzazione statale più leggera, fanno arretrare la gestione pubblica accentrata e diretta dei servizi sociali. Le risposte sono molteplici. La soddisfazione di alcuni bisogni, che producono profitto, farà certamente capo all’impresa privata, che considererà gli utenti veri e propri clienti. Questo comporta il rischio che dove non c’è il business non ci sono risposte ai problemi, con un danno alla collettività, e in particolare ai più deboli. E’ evidente allora il ruolo del non-profit: efficienza nelle prestazioni a livello economico, organizzativo e garanzia di soddisfare i bisogni fondamentali della persona. Quindi è necessario che il non-profit sia forte e integro, evitando impreparazione e debolezza. Ne va dell’equilibrio sociale e della realizzazione delle condizioni di cittadinanza per tutti. Tuttavia è riduttivo e strumentale presentare il non-profit come frutto della crisi del Welfare. E’ una realtà che nasce da valori radicati nella società civile. Esiste una matrice cristiana: enti che nei secoli hanno dato vita a organizzazioni scolastiche, culturali, di assistenza, sportive e sanitarie che ancora oggi prestano la propria opera; ordini religiosi e istituzioni che hanno come fondamento l’esercizio evangelico della carità. Ed esiste una tradizione filantropica e di matrice laica (“fare qualcosa per gli altri”), tipica della cultura umanitaria e dei valori laici del riformismo e dell’imprenditorialità lombardi. La crisi del Welfare produce effetti “a valle”: accelera il non-profit e “sveglia” istanze di civiltà presenti nella società civile. Un ruolo significativo per la realizzazione di uno sviluppo giusto e civile, rivolto alla costruzione di una società realmente moderna, che non sia rispettosa solo con i ricchi e velatamente crudele verso chi non ha la possibilità di pagare un prezzo di mercato per soddisfare i propri bisogni di uomini. Tuttavia c’è anche chi interpreta il non-profit in versione riduttiva e pericolosa: come un serbatoio di voti da conquistare per giocare “partite di altra natura”; come una non trascurabile fonte di reddito personale; come uno scudo fiscale attraverso cui far transitare rilevanti operazioni economiche; come soluzione produttiva a basso costo perché fondata sul lavoro di soggetti svantaggiati e di volontari. Una realtà dalle mille facce Nell’introduzione Adriano Propersi (docente dell’Università Cattolica, vicepresidente dell’Ambrosianeum e curatore del Rapporto), sottolinea la complessità del fenomeno. Infatti il settore non-profit milanese, vasto e variegato nell’attività (assistenza, sanità, arte, cultura, istruzione, formazione, culto, ricerca, ambiente, sport, tutela dei diritti civili) e nelle forme giuridiche (associazioni, fondazioni, comitati, cooperative sociali, Ipab, Onlus, enti religiosi), è difficilmente inquadrabile. Un settore sempre più critico nell’attuale modello di socialità sia regionale sia nazionale e che si legittima pienamente solo se è in grado di erogare i servizi di pubblica utilità in modo efficace ed efficiente. Non sempre questo accade: in altri Stati si sta verificando che il terzo settore viene criticato perché talvolta poco efficiente e, rispetto al settore privato, poco incentivato a migliorare i servizi, anche perché si caratterizza per l’attenzione più agli scopi istituzionali che ai risultati gestionali. Una realtà dalle mille facce per la quale non vi sono ricette facili per proporne il rafforzamento. Fotografia di un fenomeno: 25 mila assunti, 310 mila volontari Sono 4215 le organizzazioni senza fini di lucro attive nell’area milanese. Di queste il 57% è concentrato nella metropoli. E’ questo il dato che emerge nel capitolo curato da Stefano Cima e Daniela Mesini (ricercatori dell’Istituto per la ricerca sociale-IRS di Milano). In prevalenza sono associazioni (2500, il 60% del totale): si tratta dei numerosi circoli Arci e Acli, delle grandi associazioni di raccolta fondi e sensibilizzazione (come l’Associazione italiana sclerosi multipla, l’Associazione ricerca sul cancro, ecc.), delle associazioni di assistenza socio-sanitarie, di quelle sportive, le pro-loco e le organizzazioni di volontariato tout-court. Seconde per numerosità sono le cooperative sociali (12,6%), sia di tipo A (forniscono servizi socio-sanitari ed educativi), sia di tipo B (finalizzate all’inserimento lavorativo di soggetti svantaggiati). Seguono i grandi enti, le fondazioni e le istituzioni religiose (8,6%). Quando sono nate? E’ un fenomeno abbastanza recente: oltre il 60% delle realtà non-profit si è costituito negli ultimi 20 anni e di queste meno del 20% negli anni ’90. Circa un 10% ha più di 50 anni, molte con tradizioni secolari. Occupazione. Il non-profit è un settore in grande espansione anche dal punto di vista dei posti di lavoro che crea: a Milano e provincia sono stimati in 25.600 gli assunti a tempo pieno, pari a quella complessiva (dipendenti e non) dei settori manifatturieri dell’industria alimentare. Il numero raddoppia (47 mila) se si considera l’occupazione plurilocalizzata, cioè attiva in realtà locali sparse sul territorio nazionale, ma con sede principale a Milano. In città e provincia il 48% lavora nelle associazioni, il 35% negli enti, solo il 15% è impiegato nelle cooperative sociali, che rappresentano una realtà in costante crescita (+38% il numero di coop nel biennio 1996-98), dimostrando una rilevante capacità innovativa e imprenditoriale. Welfare. L’analisi condotta su alcuni dei principali settori di welfare onferma l’estensione dei servizi forniti dal non-profit e l’impegno di personale retribuito e di volontari. Istruzione: oltre 17 mila bambini nella scuola materna non statale (circa l’11% del totale) assistiti da più di 1100 insegnanti; 42 mila studenti nelle scuole elementari, medie e superiori (oltre il 10%) seguiti da più di 5 mila insegnanti; 21 mila allievi dei corsi di formazione professionale (quasi il 60%) con 1400 docenti; 56 mila studenti nelle università (oltre il 30%, in Cattolica, Bocconi, Iulm e “Vita e salute” S. Raffaele) con un corpo docente di oltre 5 mila persone. Assistenza: sono circa 3500 gli utenti delle comunità di accoglienza per tossicodipendenti, affiancati da 2 mila tra operatori, volontari, religiosi e obiettori di coscienza. Sanità: 4 mila posti letto presso le istituzioni sanitarie (circa il 18% del totale), assistiti da oltre 8 mila lavoratori. Volontari. Il numero è ingente: si stima che 310 mila persone prestano il proprio servizio gratuitamente all’interno delle organizzazioni non-profit, pari a circa 36 mila lavoratori a tempo pieno. Quanto si impegnano? Circa il 60% meno di 5 ore alla settimana (una media di 31 persone per organizzazione); il 26% tra le 5 e le 10 ore (14 volontari per organizzazione); il 14% per più di 10 ore e tra questi il 5% per più di 20 ore (circa 8 per organizzazione). Chi sono? Persone fortemente motivate, si presume libere da carichi di tipo familiare e lavorativo, spesso coinvolte direttamente nelle scelte strategiche dell’associazione o dell’ente e per le quali l’impegno gratuito di tipo solidaristico è una “scelta di vita”. Obiettori di coscienza. Costituiscono una risorsa importante, di elevata scolarità e preparazione di base. Presso i 238 enti di Milano e provincia risultano in servizio oltre 1800 obiettori, la metà di tutta la Lombardia e uno su dieci del totale nazionale. Milano e la Caritas Ambrosiana:una solidarietà concreta ed esigente Sara Zandrini illustra l’attività svolta dalla Caritas Ambrosiana, soggetto fondamentale per capire la portata degli interventi nel sociale a Milano e i corrispondenti bisogni. Un’organizzazione capillare, che vive direttamente sul campo le emergenze della metropoli, cogliendo ciò che si muove spesso sottotraccia. In città sono presenti 150 Caritas parrocchiali e 115 centri d’ascolto. Ma il “sistema Caritas” è formato anche da un’ampia gamma di servizi diretti e da realtà non-profit (cooperative e non). “Pedagogia dei fatti”, cioè la traduzione delle riflessioni in concreto, carità operosa e competenza specifica sono gli elementi che caratterizzano l’impegno della Caritas. La parola chiave è solidarietà, che non si può ridurre né al buonismo, né all’assistenzialismo. C’è attenzione agli “ultimi della fila”, ma così si risponde anche a questioni che “toccano” anche i cosiddetti “normali” a rischio di esclusione sociale. Il dato essenziale che la Caritas legge quotidianamente è che accanto a una povertà di risorse, indiscussa e da colmare, vi è una condizione di separatezza, di distanza, di marginalità delle persone. L’immagine che meglio sembra rappresentare oggi Milano è quella della città scomposta, frammentata; specchio di una società che perde i tratti della coesione, del cum-vivere, dei legami primari della solidarietà per assumere quelli dell’individualismo, dell’autosufficienza e dell’autoreferenzialità, della crisi delle rappresentanze e della polverizzazione dell’economia, della flessibilità che si riduce a pericolose forme di precarietà in un quadro che sembra riunire il massimo dell’innovazione con il massimo della mediocrità. Una città dove quasi metà dei senza dimora ha tra i 25 e i 49 anni, l’80% è solo (celibi/nubili, separati o divorziati, vedovi); 70 mila anziani non sono autosufficienti, 22 mila dei quali colpiti da malattie di demenza senile; 8 mila ultra 85enni abbandonati; malati di aids spesso soli con famiglie che fanno fatica a seguirli; 15 mila malati psichici, praticamente a carico dei propri cari; il drammatico bisogno di case per famiglie che non possono permettersi un affitto sul mercato privato, si stima che coinvolga a Milano e provincia ben 50 mila nuclei familiari. La risposta: costruire una “rete di sicurezza” che garantisca a ogni persona uguali diritti e politiche di prevenzione grazie alla collaborazione tra istituzioni pubbliche, volontariato, non-profit e profit, mettendo in comune risorse (economiche, professionali, tecniche e strutturali) finalizzate a obiettivi condivisi. Sul piano sociale: puntare su un “welfare di comunità”, con un sostegno a reti informali di vicinato. Sul piano culturale: restituire la cultura “alta”, e non solo l’intrattenimento, a tutta la popolazione là dove vive. Sul piano urbanistico: valorizzare le periferie e recuperare le aree dismesse; attivare politiche per la diffusione dell’affitto calmierato, anche attraverso sgravi fiscali; costruire nuovi alloggi di edilizia pubblica; diffusione di forme di garanzia temporanea di soggetti sociali in termini di intermediazione nei contratti d’affitto con la proprietà privata. Sul piano economico: sinergie con la formazione professionale per il reinserimento lavorativo. Il 52% della spesa per i servizi sociali del Comune di Milano al non-profit Alessandro Battistella (ricercatore dell’Irs) affronta il rapporto tra il pubblico e il non-profit, che costituisce la fonte primaria di sostegno del terzo settore soprattutto nell’attività di assistenza. Per i servizi sociali il Comune di Milano nel 1999 ha impiegato 292 miliardi, cui vanno aggiunti 66 miliardi per il personale e più di 100 per le spese in conto capitale. Un investimento rilevante, che assorbe il 16,4% della spesa corrente sul bilancio complessivo, attestando Milano al terzo posto in Italia dopo Bologna (19,4%) e Torino (18,6%). Considerando invece la spesa pro-capite Milano è al primo posto, con circa 395 mila lire. Il 34,7% è stato assorbito dai servizi erogati direttamente dal Comune e il 5,7% destinato alle famiglie. Ma quasi il 60% delle risorse è stato trasferito a soggetti terzi, attraverso la logica del “contracting out”, con la gestione convenzionata dei servizi per conto del Comune: il 52,2% al non-profit mentre il 7,4% al settore profit. Le convenzioni sono state 678, in maggioranza (177, il 26,1%) con le cooperative sociali. Alto anche il numero di convenzioni con soggetti del privato mercantile (150, pari al 22,1%) e con associazioni del volontariato (125, il 18,4%). Palazzo Marino ha assegnato contributi anche a 215 enti beneficiari, i tre quarti costituiti da piccole associazioni. Il 54,1% delle convenzioni sono state stipulate con organizzazioni milanesi, mentre il 15% con realtà non lombarde. La linea seguita dal Comune è quella di potenziare la programmazione e di contenere la gestione, stimolando l’azione dei privati, secondo un modello di esternalizzazione centralizzato, con una scarsa rilevanza della dimensione zonale. Nel rapporto con il non-profit c’è un grande apprezzamento sia dei politici, sia dei tecnici, anche se emerge una maggiore propensione a mettere in competizione soggetti non-profit e profit alla ricerca della massima efficienza. La scelta di far partecipare alle gare realtà di grandi dimensioni ha suscitato critiche del non-profit, per il rischio della creazione di “oligopoli” e di limitare il ricorso a nuove imprese sociali più orientate all’innovazione. In particolare le cooperative sociali sottolineano il problema delle gare al massimo ribasso, che portano a una diminuzione della qualità dei servizi e all’esclusione dal mercato delle realtà più qualificate. Il volontariato milanese ritiene di essere spesso chiamato ad assumere la funzione di “ammortizzatore sociale”, svolgendo compiti propri del Comune. In questo senso il ruolo del volontariato sarebbe equivocato dagli enti locali, che tenderebbero a ricorrere ai volontari in quanto forza lavoro a costo molto contenuto. Soprattutto nei Comuni medi e piccoli della Provincia, si registra invece la tendenza al ripristino della gestione pubblica diretta di alcuni servizi per ragioni di economicità ed efficacia. Tutela dei diritti, immigrazione e ascolto telefonico:le risposte ai nuovi bisogni Sergio Pasquinelli (ricercatore Irs) esamina come il terzo settore affronta i nuovi bisogni sociali. Unità di strada, animatori di quartiere, lavoro nelle vie, centri di accoglienza a bassa soglia, centralini di aiuto sono esperienze che si sono moltiplicate negli ultimi anni. Nel saggio vengono approfonditi alcuni settori. Advocacy. La novità è che l’attività di tutela dei diritti si sta diffondendo anche nel terzo settore, diventando così attore politico. Il volontariato può contribuire a modificare l’agenda politica, denunciare situazioni particolari, dare visibilità e tradurre in discorso pubblico temi e istanze altrimenti nascoste tra le pieghe della società milanese. Questo avviene sotto due spinte: una progressiva specializzazione degli obiettivi e un’alleanza tra soggetti (organismi di coordinamento, federazioni, consorzi). Una risorsa, ma che presenta alcuni rischi: esasperare l’autoreferenzialità e la sola preoccupazione di mantenere l’organizzazione. Immigrati. I principali bisogni degli extracomunitari a Milano sono tre. La casa: il mercato degli affitti con un aumento notevole dei canoni rende inaccessibile o a costo di notevoli sacrifici ottenere un’abitazione. L’inserimento lavorativo: esiste la necessità di creare forme adeguate di collegamento tra la domanda e l’offerta. Bisogni sanitari, soprattutto per gli irregolari. Le attività di prima e seconda accoglienza sono prevalentemente gestite dal non-profit di ispirazione cattolica, coordinato dalla Caritas Ambrosiana e dalla Segreteria Esteri della diocesi. In prima linea per l’assistenza sanitaria anche realtà laiche come il Naga. Le prospettive del terzo settore impegnato con gli immigrati sono legate a un maggiore coordinamento e collaborazione tra le organizzazioni e con l’ente locale, superando le vecchie logiche legate all’emergenza. Ascolto telefonico. Si sta avviando un coordinamento, tra la quarantina di centralini d’ascolto, che fa capo all’Asl Città di Milano. E’ un fenomeno emergente e dalle molteplici funzioni: telefonia sociale (informazioni su iniziative assistenziali e culturali); help lines (aiuto su determinati problemi o gruppi specifici di popolazione); aiuto o soccorso telefonico (facilitare l’auto-consapevolezza del problema); counselling (sostegno psicologico alla persona). Questioni aperte. A) Sembra essere diventata incerta la capacità di innovazione delle risposte del terzo settore milanese ai nuovi bisogni sociali, rispetto alla stagione pionieristica degli anni Settanta e Ottanta. Oggi emerge l’esigenza di consolidamento organizzativo, di gestione interna, di legittimazione nel mercato dei servizi. B) Aumenta la competizione tra non-profit e privato a scopo di lucro e all’interno del terzo settore stesso. I confini tra strutture e logiche diverse si restringono: una crescente attenzione alla produttività e all’efficienza pone il problema di come riuscire a coniugare l’originaria cultura della solidarietà con quella dell’impresa e del mercato. C) Ricambio generazionale nella leadership: il passaggio dalle figure carismatiche dei fondatori a una gestione più collegiale. D) L’emergere di un “federalismo organizzativo”, con esperienze di collaborazioni in network su progetti tra diverse realtà del non-profit. La “politica estera” del non-profit Marco Grumo (docente dell’Università Cattolica) presenta le esperienze di cooperazione e di solidarietà internazionale, molto diffuse in Lombardia e in particolare nell’area milanese. Vengono realizzate da soggetti non-profit, che svolgono interventi di cooperazione con i Paesi in via di sviluppo e attività di informazione ed educazione alla mondialità e all’interculturalità. In quest’area è notevole l’azione dei giovani. Ong. Le Organizzazioni non governative sono i soggetti storici impegnati su questo fronte: l’81% è operativo da prima del 1980. Il loro intervento all’estero è più legato a progetti di lungo periodo (67%) piuttosto che alle emergenze (17%). Le Ong lombarde e milanesi sono presenti soprattutto in Africa, America Latina e Paesi dell’area balcanica. I settori di intervento privilegiati sono quelli socio-sanitario (47%) e della formazione (21%). Per i progetti di cooperazione, ricevono finanziamenti dal ministero degli Esteri (28%), dall’Unione europea (28%), dagli enti locali (19%) e dalle campagne di raccolta fondi, finanziatori privati e donazioni (25%). Associazioni “senza frontiere”. E’ un vasto mondo di organizzazioni di “supporto” alle Ong, per le quali la solidarietà internazionale non è l’impegno esclusivo: associazioni culturali, commercio equo e solidale, turismo responsabile, fondazioni, organizzazioni di cooperazione all’estero. Oltre il 77% di queste sono nate negli ultimi 20 anni. Puntano alla sensibilizzazione dell’opinione pubblica sui diritti umani, sui rapporti economici disuguali tra Nord e Sud, sulle ragioni che determinano i fenomeni di immigrazione. Oltre all’intervento diretto contro la povertà nel Terzo mondo, nelle stesse aree delle Ong. I finanziamenti sono in larga parte cercati in “proprio” (65%) e ricevuti dagli enti locali (23%). Parrocchie. La maggior parte ha un gruppo missionario, punto di riferimento e strumento operativo di raccolta fondi in particolare per le situazioni di emergenza (la media supera i 20 milioni a parrocchia) e di attività di informazione sul territorio. Molto diffusa l’adozione a distanza (50% delle parrocchie lombarde). Obiettivo primario: la qualità Andrea Gamba (docente dell’Università Cattolica) analizza i limiti tipici delle strutture non-profit, le quali concentrando la loro attenzione sul perseguimento dei propri fini istituzionali, troppo spesso trascurano l’esigenza di un buon ordine amministrativo. Salvare le motivazioni ideali, la creatività e l’autonomia di associazioni ed enti traducendole in forme organizzative che consentano al non-profit di stare tra Stato e mercato in modo originale, rappresenta una sfida che può vincere. Ma sul piano gestionale si impongono cambiamenti. L’obiettivo è puntare sulla qualità: quasi 7 organizzazioni su 10 utilizzano o intendono introdurre forme di valutazione della qualità dei servizi. Anche se tra questi meno della metà ha un sistema di controllo strutturato, che prevede diverse fasi: analizzare bisogni ed esigenze della “clientela” (utenti e finanziatori); pianificare la risposta coerentemente con la mission dell’organizzazione; progettare i servizi tenendo conto delle risorse disponibili e il personale a disposizione o da reperire (dipendenti, collaboratori, volontari) e alle specifiche competenze necessarie; formare il personale sugli scopi dell’organizzazione e sulle competenze tecniche, coinvolgendolo nella definizione e nel miglioramento della qualità; definire standard di qualità e di procedure tenendo conto degli elementi tangibili e intangibili (tempestività) del servizio e un corretto equilibrio tra risorse impiegate e prestazioni. E’ necessario inoltre un forte investimento sulla formazione del management. Fund raising, finanza etica, consorzi fidi:la raccolta fondi per il non-profit Lorenzo Caprio, Carlo e Filippo Bellavite Pellegrini, insieme a Silvia Calderini (Università Cattolica) presentano uno studio sul finanziamento delle aziende non-profit. La questione è fondamentale per la sopravvivenza di enti caratterizzati dalla scarsità di risorse finanziarie. Il fund raising è una tecnica utile e necessaria (per ragioni organizzative, fiscali, ecc.), ma spesso serve solo per tamponare esigenze di cassa temporanee. Non è sufficiente per la continuità dello sviluppo delle realtà non-profit. Per questo l’ideale sarebbe raccogliere risorse non per le spese correnti, ma da usare come “capitale proprio”, patrimonio durevole per programmare a lunga scadenza. Grande ruolo può giocarlo la finanza etica: fondi etici e agevolazioni fiscali. Ma da soli non bastano: occorre che si creino veri e propri network dedicati la settore, anche generati da esso, come associazioni di secondo livello, consorzi fidi o di garanzia. Questi raccolgano il risparmio in modo innovativo, anche con la diffusione di informazioni sulla destinazione etica della raccolta e intervengano nel non-profit finanziando progetti e aziende efficienti. Questo circolo virtuoso non nasce spontaneamente. Deve essere sentito come utile dall’intera società e le organizzazioni non-profit devono guadagnarsi i supporti finanziari sul campo garantendo trasparenza, serietà, economicità, fiducia. Gli “ingredienti” dello sviluppo: sette proposte per il nuovo millennio Adriano Propersi e Marco Grumo concludono il Rapporto avanzando sette proposte per lo sviluppo durevole del non-profit nella società moderna. Se il legislatore, sollecitato anche dall’Authority di settore, farà proprie queste indicazioni tutto il sistema non-profit, anche quello milanese e lombardo, ne trarrà beneficio e potrà crescere in rapporto alle esigenze sociali che emergeranno nel tempo. 1) La legislazione sul settore è stata disorganica, occasionale e a tratti confusa. Occorre cercare di delineare gli aspetti generali tipici del settore: il ricorso un po’ al libro I (enti) e al libro V (società) del codice civile non soddisfa più le esigenze reali dei soggetti presenti nel terzo settore. 2) La normativa fiscale ha svolto una funzione di supplenza introducendo anche norme di portata civilistica, ma proprio per le motivazioni fiscali che l’hanno suscitata, ha spesso creato confusione e portato problemi di ulteriore complessità per gli operatori. Occorre procedere a una grande semplificazione nella linea della deregulation, necessaria in questo settore che per definizione è molto più che un contribuente fiscale; un settore che è oltre tutto generalmente poco strutturato e non in grado di sostenere elevati oneri di amministrazione e gestione. 3) E’ necessario favorire processi di aziendalizzazione degli enti, al fine di perseguire condizioni di economicità, efficacia ed efficienza dei servizi, per raggiungere migliori risultati qualitativi nel servizio reso, senza tuttavia in alcun caso perdere di vista il fine istituzionale che va costantemente garantito e verificato. 4) Occorre favorire la massima trasparenza nella gestione accogliendo gli inviti delle associazioni del settore aderendo alle varie forme di autoregolamentazione, quali ad esempio la carta delle donazioni, e gli schemi di rappresentazione dei risultati recentemente proposti dal Consiglio nazionale dei Dottori commercialisti. 5) E’ bene che siano rafforzate le istituzioni di secondo livello che concorrono a migliorare le gestioni e le attività delle organizzazioni associate, ma occorre al contempo non creare federazioni con taglio profit, che di fatto possono far cambiare i caratteri tipici dei propri associati. Non si deve mai perdere di vista il fine non-profit perseguito: le federazioni devono servire non tanto a creare nicchie protette e riservate ai propri affiliati, quanto piuttosto a rafforzare le gestioni dei soggetti partecipanti. 6) Va istituito un sistema di controllo del rispetto dei fini istituzionali propri degli enti che operano nell’interesse della collettività, secondo le proprie regole statutarie liberamente scelte. Occorre cioè garantire il chiaro ed efficace funzionamento della “governance” delle istituzioni non-profit stabilendo regole chiare e rispettate, anche con la collaborazione di figure professionali indipendenti (revisori, professionisti d’azienda). 7) Queste regole vanno rafforzate e chiaramente definite soprattutto per gli enti che ricorrono alla raccolta fondi o all’utilizzo di lavoro volontario, oltre che al finanziamento pubblico.


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