Famiglia

Il prezzo dei figli? Più povertà

L’Italia arrivata in Europa ha più stracci addosso dello scorso anno. Lo conferma l’Istat: altre 200 mila nuove famiglie sono entrate nella fascia della miseria.

di Marco Piazza

L?Italia che è entrata in Europa è più povera dell?anno scorso, anche se questo paradossalmente non fa notizia. Gli statistici spiegano infatti che l?aumento della povertà è ridotto, e che se si considerano la congiuntura economica e l?inflazione di fatto siamo ai livelli degli ultimi due anni. Tutto sotto controllo? Neanche un po?. Basta leggere i numeri per rendersi conto che la realtà è drammatica. Che il nostro Paese nella sua marcia ?trionfale? verso l?integrazione europea si è portato dietro profonde – sempre più profonde – contraddizioni. A cui si cerca di porre rimedio con provvedimenti quali il reddito minimo di inserimento, ma a cui si aggiungono d?altra parte nuovi preoccupanti fenomeni, come la povertà giovanile o quella dei lavoratori dipendenti. In estrema sintesi è ciò che ha fotografato la Commissione povertà, nel suo rapporto giunto quest?anno alla sua quinta edizione e che è stato presentato il 14 luglio. Ma la sintesi male si sposa con analisi di questo genere che – come hanno spiegato il presidente della commissione Pierre Carniti e uno dei suoi membri, Paolo Garonna, direttore dell?Istat – sono sempre più complesse e per questo vanno affrontate utilizzando indicatori diversi. Al tempo stesso però spostando il discorso troppo sulla metodologia statistica, si corre i rischio di perdere di vista i problemi reali. Per questo nell?illustrare l?indagine su ?La povertà in Italia nel 1997?, non ci dimenticheremo che dietro le cifre e gli indicatori ci sono persone in carne e ossa.
Cominciamo dai numeri nudi e crudi. Come premessa va detto che il campione considerato dall?Istat è composto da circa 6000 famiglie, rispetto alle 25 mila degli anni scorsi. Questo perché l?istituto di statistica sta modificando le tecniche utilizzate; e bisogna poi aggiungere che quest?anno per la prima volta si sono utilizzati due indicatori generali: quello della povertà relativa e quello della povertà assoluta. Il primo (quello usato nei passati rilevamenti) considera le famiglie rapportandole tra di loro. Il secondo, già utilizzato negli Stati Uniti, invece, si ricava sulla base di un paniere che considera i beni e i servizi essenziali. «La povertà sta diventando sempre di più un fenomeno multidimensionale», spiega Paolo Garonna. «E come tale necessita di più indicatori. Noi dell?Istat in questo senso ci stiamo attrezzando, e dall?anno prossimo armonizzeremo i nostri indicatori con quelli in uso in Europa».
Partiamo quindi dalla povertà relativa. L?indice che definisce povera una famiglia di due componenti con una spesa per consumi inferiore al consumo nazionale pro capite è di 1.233.829 lire mensili. La stessa famiglia è considerata povera in valori assoluti se i suoi consumi sono inferiori alla cifra di 994 mila 273 lire. Considerare i consumi – hanno spiegato gli esperti – serve per includere nel campione anche persone che, lavorando in nero, non hanno redditi facilmente individuabili. Passando al rapporto 1997, la linea di povertà è salita a causa dell?inflazione e della ripresa economica e questo spiega in parte l?aumento del numero totale di poveri, che è passato da 6 milioni 552 mila a 6 milioni 908 mila.
Quando si cominciano a disaggregare i dati vengono fuori le emergenze. Al Sud, per esempio, sono concentrate 3 famiglie povere su 4 (il 72%) e l?incidenza della povertà relativa (numero dei poveri rispetto ai residenti) passa dal 22,3% al 24,2% delle famiglie e dal 24,1 al 26% degli individui. Come a dire che al Sud una famiglia o una persona su quattro è povera. Considerando l?indicatore della povertà assoluta le cose non vanno meglio, anzi: 1 milione 162 mila su 1 milione 504 mila di famiglie povere vivono nelle regioni del Meridione. «La povertà ha diverse anime», continua il direttore dell?Istat. «C?è quella di chi non riesce a soddisfare i bisogni essenziali, che comprendono gli alimenti, i vestiti, ma anche i servizi e le tecnologie: nel paniere minimo dei beni sono infatti compresi anche frigorifero, lavatrice e tv. Da noi, in mancanza di ammortizzatori sociali, si aggrava più che altrove la situazione di chi cerca occupazione. E poi sta finendo quel paradosso italiano per cui anche in presenza di alta disoccupazione a livello generale, la percentuale di capi famiglia poveri era ridotta. Ora non è più così. Anche chi porta i soldi a casa non ce la fa a tirare avanti». Parole che vengono confermate dai dati sulla povertà in rapporto all?età, al titolo di studio e all?eventuale impiego. Rispetto all?età va detto che gli anziani restano la categoria più a rischio, anche se viene considerato con grande preoccupazione l?aumento della povertà nelle famiglie di giovani. Prendendo in considerazione le diverse tipologie di famiglia, di quelle con persone sole ?over 65? sono povere il 6,5% (+ 2,6% rispetto al 1996). Le coppie con capofamiglia ultrasessantacinquenne sono povere nel 15,9% dei casi. Quanto ai giovani, la povertà colpisce soprattutto le famiglie con almeno un figlio minore, che passano dal 12,5% dei casi nel 1996 al 13,2 nel 1997. Confermando che le difficoltà dei grandi ricadono sui bambini, un fenomeno che la legge 285 sta cercando di contrastare. Un?ulteriore conferma? Tra le famiglie, la più povera in assoluto è quella con tre o più figli, in assoluto il 26,4% dei casi. Percentuale che diventa stratosferica se la famiglia numerosa è residente al Sud: in questo caso il rischio di impoverimento è passato in un solo anno dal 33 al 40%. Rispetto al titolo di studio, sta sicuramente peggio chi è analfabeta (povero nel 30% dei casi), ma anche tra i laureati e diplomati la percentuale aumenta (dal 3,6 al 4,7). Infine la condizione professionale: viene considerato con preoccupazione il fenomeno dell?aumento della povertà per i lavoratori dipendenti (la percentuale passa dall?8,4 al 9,7%). Disoccupati o no, la povertà non guarda in faccia a nessuno.

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