Salute

Il premio Nonino a Peppe Dell’Acqua

Lo psichiatra erede di Franco Basaglia, che ha appena girato l'Italia con Marco Cavallo per sensibilizzare sulla chiusura degli OPG, è stato insignito del prestigioso Premio Nonino 2014

di Sara De Carli

L’anno scorso era toccato a Fabiola Giannotti, l’italiana a capo dell’esperimento al CERN di Ginevra, che nel luglio 2012 aveva annunciato al mondo l’esistenza del “ bosone di Higgs”, inseguito da vent’anni. Quest’anno il prestigioso premio Nonino è andato a Peppe Dell’Acqua. L’annuncio dei vincitori dell’edizione 2014 è stato dato questa mattina. Dell’Acqua – recita la motivazione – «ha combattuto sin dai primi tempi accanto a Franco Basaglia la lunga e perigliosa battaglia che ha portato prima alla trasformazione e quindi alla chiusura degli ospedali psichiatrici, riforma fondamentale per la difesa di elementari diritti umani di persone per molto tempo ignorate o respinte nella loro sofferenza».

Gli altri vincitori sono l’architetta palestinese, Suad Amiry, fondatrice e direttrice del Riwaq Center for Architectural Conservation a Ramallah (premio Nonino 2014 Risit D’Aur); Antònio Lobo Antunes, scrittore portoghese (Premio internazionale Nonino 2014); il filosofo Michel Serres (Premio Nonino 2014 a un maestro del nostro tempo). Dell’Acqua è del 1947, è salernitano, ed è a Trieste dal 1971, quando iniziò a lavorare con Franco Basaglia. Di sé dice: «sono impegnato da quarant’anni nel lavoro di cambiamento della psichiatria e delle sue istituzioni». È stato protagonista del laboratorio che partorì Marco Cavallo, il fantastico cavallo azzurro simbolo della liberazione e dei riconquistati diritti dei “matti”, che dal 1973 ruppe – simbolicamente e non – i muri dei manicomi. Dal allora lavora per la progettazione e la sperimentazione dei primi centri di salute mentale territoriali, e ancora oggi combatte per una piena presa in carico dei malati nei territori. Ha diretto il Dipartimento di Salute Mentale (DSM) di Trieste, insegna psichiatria sociale all'Università ed è tra i promotori del Forum Salute Mentale. Nel 2007 ha pubblicato Non ho l’arma che uccide il leone. Trent’anni dopo torna la vera storia dei protagonisti del cambiamento nella Trieste di Basaglia e nel manicomio di San Giovanni, è stato consulente di C’era una volta la città dei matti, il film di Marco Turco che ha fatto conoscere al grande pubblico televisivo la vita di Franco Basaglia, e oggi presso le edizioni Alphabeta Verlag dirige la Collana 180.

Sul numero di Vita in edicola, Dell’Acqua racconta il suo recente “tour” in Giappone, dove già 10mila persone hanno visto la versione sottotitolata di C’era una volta la città dei matti: «In Giappone ci sono oltre 1600 ospedali psichiatrici, con 350mila posti letto. È il classico paradigma manicomiale, con degenze lunghissime, intorno ai 330 giorni e una peculiarità tutta giapponese per cui 9 posti su 10 sono privati e spesso il direttore del manicomio ne è anche il proprietario». Qui di seguito invece riproponiamo una vecchia intervista del 2010, fatta nei giorni della proiezione su Rai1 del film su Basaglia.  

Com’è iniziata l’avventura?
Ci lavoriamo da inizio 2008, il regista era perfettamente consapevole della difficoltà della sfida, perché mettere in scena Basaglia significa toccare una materia incandescemte, che ha che vedere con la storia italiana e con un’area che continuerà sempre ad essere problematica, dialetticamente ruvida, tant’è che pone continuamente delle questioni, anche a 50 dall’inizio del lavoro di Basaglia a Gorizia. E poi è difficile raccontare una storia ricchissima di eventi e di eventi contradditotri, col rischio di banalizzarli. Più volte siamo stati in dubbio, momenti in cui il regista e gli sceneggiatori hanno erano sfiduciati, hanno detto “non ci riusciamo”.
È un'agiografia di Basaglia?
No, questo era il rischio che personalmente avevo più presente, quello di rappresentare un Basaglia-Padre Pio, di farne un santino. È un rischio che si è accettato, qualche volta lo si vede anche, a tratti c’è anche un Basaglia che lenisce il dolore, che è anche vero, però bisognava restituire anche la dimensione contraddittoria di Basagalia stesso.
Ci si è riusciti?
Ci sono risuciti il regista e gli sceneggiatori, nel senso che si è scelto di raccontare delle storie di persone, in un racconto corale, con cento attori protagonisti e centinaia di comparse: quella di Basaglia è una stria tra le altre, certo è molto pregnante, però sta nella coralità.
Com’è il Franco Basaglia interpretato da Gifuni?
Fabrizio si è molto documentato, ha studiato tantissimo, adesso è un esperto. Quando hanno girato qui a Trieste l’ho accompagnato a vedere i luoghi dove oggi continua l’avventura di Basaglia e abbiamo fatto un bel gioco, io lo presentavo a tutti come Franco Basaglia, come fosse un’apparizione. Per dire quanto abbia lavorato.  Abbiamo sicuramente guadagnato un bel testimone nel nostro lavoro di garantire i diritti dei matti e delle persone fragili. Quello che apprezzo di più è che nelle conferenze stampa lui continua a parlare dell’oggi, del dopo-Basaglia, come del senso che lui ha trovato in questo film.
Per quale tematica la trasposizione sullo schermo è stata più complessa?
Necessariamente, per non fare del buonismo, bisognava mettere in scena anche situazioni delicate, come quell’uomo che a Gorizia, a casa in permesso, ammazzò la moglie. Come si affronta il problema del rischio e della pericolosità di queste persone senza banalizzare in un modo o nell’altro? Senza dire “non è un problema” né “aiuto, è fuggito il matto”? Ecco, su questa scena ho discusso moltissimo con gli sceneggiatori, loro lo banalizzavano come un “vabbè ma tutti possono ammazzare la moglie”, la sceneggiatura è stata scritta quattro volte. È stato bravissimo il regista, perché la cosa è stata raccontata senza negare nulla, ma in una dimensione talmente umana che diventa molto vicino, molto comprensibile senza essere giustificata, si difenda dal rischio di mostrificazione. Alla fine è una delle scene che amo di più, anche se devo ammettere che tutto il film, a noi vecchi, ci communove un po’.
Qualche fraintendimento, qualche involontario stereotipo da correggere?
Una questione di organizzazione: sia a Trieste sia a Imola sono attivi alcuni gruppi teatrali di matti e io ho chiesto che alcuni di essi potessere essere selezionati come comparse, dopo un casting, e pagati come tutti. La produzione, con malinteso senso del pudore, non voeva farlo perché – sosteneva – “poi ci dicono che sfruttimao i matti”. Ma sono attori, lo fanno di lavoro, che importa se prima sono stati in manicomio, se hanno una storia particolare? Importa se uno viene dal Cile? Insomma, è stato un vero braccio di ferro, un momento critico. Alla fine hanno lavorato in questo film 50/60 persone con problemi di salute mentale e soprattutto a Imola, là dove si è ricostruito il manicomio di Gorizia, molti di loro hanno rivissuto davvero quelle situazioni, l’elettoshock, è stato un impatto emotivamente difficile. Però le riconoscerai queste persone, nel film: sono il valore aggiunto.
Cosa teme di più, adesso che l’Italia intera vedrà questo lavoro?
Temevo un po’ il giudizio degli eredi di Franco Basaglia, che erano restii: invece i figli l’hanno visto e sono molto contenti. Temo un po’ quel che diranno i miei colleghi, perché a questo punto io mi sono assunto la responsabilità di portare a 8 milioni di persone una storia che magari loro mi diranno “l’hai letta come hai voluto tu”. E poi voglio dire una cosa…
Prego…
La sceneggiatura è tutta sbilanciata dalla parte dei matti, la famiglia e i famigliari o non ci sono o sono rappresentati quasi come una controparte: questo verrà notato, tuttavia penso che sia stata una buona scelta, non perché le cose stanno sempre così ma perché qui si è voluto dare la parola a chi questa storia l’ha vissuta sulla propria pelle, l’assenza o la protervia della famigli va letta in questo mdo, come dire questa volta sentiamo cosa hanno da dire loro.
Cosa spera che il film cambierà nella mentalità comune?
Io lo giudico come un’opera necessaria, quantomeno per la memoria. Queste operazioni servono anche a radicare una memoria che si rischia di perdersi, e questo è uno dei mali più dolorosi dei nostri tempi. Qui c’è tanto della memoria di un pezzo di storia ialiana, ma non un prodotto da Rai educational, spero venga fuori l’importanza del ricordare e dell’attualizzare le cose. In fondo si riportano sullo schermo parole belle, che abbiamo consumato, distrutto, abbandonato, parole di amore, di comprensione, di lotta, parole critiche.
Basaglia è morto nell’agosto del 1980, quest’anno sono i trent’anni della morte. Però in questo momento si discute anche molto di revisione della legge 180. Il film ha anche un significato politico, in questo senso?
Guarda, il direttore di Rai1, quando gli hanno chiesto perché lo ha fatto, ha detto «Perché molti sono distratti e non approfondiscono». Sul resto, io sono sicuro che non è in discussione proprio nulla, non c’è nessuno che ha forza, il coraggio e soprattutto la necessità di cambiare questa legge.
 

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