Sostenibilità

Il po fa il 40% del nostro pil. Quando impareremo a rispettarlo?

Dalla famosa rotta del 1705 all’ultima piena minacciosa del 2000, passando da quella terribile del 1951, la storia del Po negli ultimi tre secoli...a cura di, Ireneo Ferrari

di Redazione

Dalla famosa rotta del 1705 all?ultima piena minacciosa del 2000, passando da quella terribile del 1951, la storia del Po negli ultimi tre secoli può essere ricostruita come sequenza ininterrotta di eventi alluvionali calamitosi. A tali eventi si è fatto fronte, ogni volta, con interventi di ripristino, costosissimi, mirati sostanzialmente alla rettificazione del corso del fiume e al rialzo degli argini. E ogni volta il fiume, rompendo e tracimando, si è preso la rivincita sulla presunzione di progettisti ancorati alle leggi ferree dell?ingegneria idraulica tradizionale, che pensavano di poterlo trasformare in un grande canale. Da metà Ottocento il Po dal Ticino alla foce scorre imprigionato entro arginature continue e oggi ha caratteri di pressoché completa artificialità.

Un bacino da 16 milioni
Ma negli ultimi cinquant?anni si sono avute trasformazioni sconvolgenti che hanno interessato l?intero bacino padano (oltre 70mila chilometri quadrati, 16 milioni di abitanti, il 40% del Pil italiano?), contribuendo a rendere più vulnerabile il reticolo idrografico che afferisce al Po ed erodendo pesantemente le funzioni essenziali di ricambio metabolico dei materiali naturalmente svolte dai corpi d?acqua.

Lo sviluppo economico si è realizzato attraverso l?impiego di tecnologie inquinanti nell?industria e nell?agricoltura, l?espansione di processi insediativi incontrollati, l?aumento spropositato di consumi e sprechi di risorse fondamentali, di risorsa idrica in primo luogo.

Il Po è prigioniero anche di questo assurdo meccanismo di produzione e consumo, che tende a replicarsi divorando il capitale naturale fatto dei beni e dei servizi resi dagli ecosistemi e distruggendo per questa via le stesse basi materiali dello sviluppo economico.

Il pressante impatto antropico si riverbera sulla qualità delle acque del fiume, mediamente scadente, in alcuni tratti cattiva o pessima. È da aggiungere che l?alveo di magra, per effetto delle estrazioni di sabbia e delle escavazioni abusive, si è abbassato in misura impressionante, fino a quattro metri rispetto agli ultimi anni 50. Le golene sono diventate pensili e sempre più raramente sono inondate.

Rispetto a questo quadro di criticità, si impone l?adozione di una strategia gestionale che punti, anzitutto, ad una ricostruzione dell?ambiente del fiume e della piana golenale. Si pensa ad una strategia per liberare il fiume, per restituirgli complessità e flessibilità evolutiva, che preveda anche misure di adattamento ai cambiamenti climatici, in particolare alla tendenza in atto all?intensificarsi di eventi estremi, dalle crisi idriche protratte ai rischi alluvionali.

Un ecosistema da recuperare
Si rigetta il modello del fiume canalizzato, per aderire all?idea dei corsi d?acqua come sistemi in equilibrio dinamico. L?obiettivo è quello di recuperare i processi e le funzioni dell?ecosistema fluviale, ricongiungendo il fiume alla golena e consentendogli di espandersi su una vasta fascia di mobilità funzionale.

Questo obiettivo implica la rivitalizzazione di elementi residui ma significativi di naturalità, oltre che la riscoperta di valori e memorie di paesaggi perduti di cui esistono solo labili tracce. Ma richiama anzitutto l?esigenza di ripensare e superare i modelli di gestione ispirati a logiche perennemente ?emergenziali?.

La ricostruzione ecologica attraverso il ripristino di stati di equilibrio dinamico dei caratteri idrogeomorfologici ed ambientali diventa un?opzione strategica per ridurre il rischio idraulico, conservare la quantità e migliorare la qualità delle risorse del fiume, incrementare le capacità di resistenza e recupero del sistema fluviale. Conviene, dunque, anche e soprattutto, sotto il profilo economico. La conservazione di una buona qualità delle risorse è la condizione di uno sviluppo sociale ed economico duraturo.

Ireneo Ferrari è docente di Ecologia all?università di Parma

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