Mondo

Il pianeta Diavata fatto di bellezza, dignità e novecento rifugiati

La seconda puntata del diario di Paola Strocchio che per una settimana ci porterà nei campi profughi di Salonicco in Grecia. «La maggior parte di loro sono donne e bambini. Hanno lo sguardo dolce ma evanescente al tempo stesso, perché il campo non è casa. Non è il loro mondo. Sembrano alieni che si muovono ciondoloni su di un pianeta che non è il loro»

di Paola Strocchio

«Ricordalo bene. Tu sei qui per portare un po' di bellezza, per restituire un po' di dignità e per regalare un po' di felicità». Mi ha detto esattamente queste parole ieri sera, a cena, il coordinatore della Luna di Vasilika. È una delle persone più originali che abbia mai incontrato sulla mia strada. Così originale che mi chiede di non citare il suo nome, «perché tanto non è importante come mi chiamo, no? È importante che si sappia di loro». Loro sono i quasi novecento rifugiati che vivono nel campo di Diavata, poco chilometri a nord di Salonicco.

Ho dormito poco la notte scorsa. Perché ho passato gran parte del mio tempo a immaginare come fare per portare bellezza, felicità e dignità. Credo mi risulterebbe più semplice portare oro, incenso e mirra.

Una volta entrata al campo di Diavata, però, tutto prende colori diversi.

In una struttura all'interno del campo, che in totale è grande come cinque campi da calcio messi insieme, sono accatastati più di settecento cuscini. Li ha portati la Caritas greca.

I rifugiati si avvicinano e mi guardano con curiosità e diffidenza. Non mi hanno mai vista prima, e non hanno nessuna ragione per fidarsi di me, anche se ad accompagnarmi c'è quell’uomo che da quasi due anni passa gran parte del suo tempo con loro, nel campo.

La maggior parte di loro sono donne e bambini. Hanno lo sguardo dolce ma evanescente al tempo stesso, perché il campo non è casa. Non è il loro mondo. Sembrano alieni che si muovono ciondoloni su di un pianeta che non è il loro.

Ripenso alla bellezza, alla dignità, alla felicità. «A volte ne basterebbe un pizzico», mi dice il coordinatore del campo. Già. Un pizzico.

Ma dove ne trovo di bellezza, di dignità e di felicità?
La bellezza è la loro. Addirittura disarmante, nonostante l'abbigliamento poco curate e le scarpe logore. Nonostante le piaghe di un uomo che per arrivare fino a qui, dalla Turchia, ha camminato ventidue ore. La dignità è nel loro sguardo che incrocia il mio. «Thank you». Mi ringraziano per un cuscino. «Thank you for the pillow». Un cuscino. Grazie per il cuscino.

Alcuni di loro mi guardano con aria interrogativa. Spiego loro che per questioni di spazio i cuscini sono stati messi sotto vuoto, ma che quando li toglieranno dal nylon diventeranno più grandi. Sorridono. Ringraziano ancora una volta e se ne vanno.

Una volontaria accanto a me, che arriva non so da dove, augura loro «sweet dream». E a me sembra che il mio cuore si stia per fermare. Dolci sogni. Sognare. Sognare cosa? Di essere a casa. Nella loro casa. In Iraq, in Siria, in Afghanistan, in Pakistan. Non qui.


Leggi anche la prima puntata: Destinazione Campo profughi


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