Se “nonprofit” è qualcosa di più di un’accozzaglia di forme organizzative e settori di attività oltre stato e mercato, lo si dovrebbe apprezzare soprattutto da una prospettiva culturale. Senza una cultura distintiva, infatti, si confermerebbero quelle teorie che vedono il nonprofit legato ai fallimenti delle istituzioni dominanti. E si sa, quando la burocrazia pubblica e l’imprenditoria capitalistica recuperano in efficienza ed efficacia non rimane, appunto, che qualcosa di terzo, di residuale.
La cultura nonprofit c’è e le sue caratteristiche sono ben definite. Si basa su una combinazione equilibrata tra attenzione al caso, alle sue peculiarità, e condivisione di un articolato sistema di valori. Nessuno degli altri sistemi istituzionali presenta un modo di pensare e di agire così sofisticato. Lo Stato procede secondo criteri generali e astratti facendo molta fatica a cogliere le specificità di ciascuna situazione e contesto. Le imprese di mercato, invece, si muovono in base a principi estremamente semplificati e autoreferenziali. Su tutti la massimizzazione del profitto per coloro che detengono i diritti di proprietà, con il risultato di impoverire le relazioni.
Una cultura, qualsiasi essa sia, funziona davvero come un sostrato. Va quindi costantemente alimentata e diffusa sia fra le organizzazioni che esplicitamente si rifanno ad essa, sia presso altri soggetti interessati a farsi contaminare. Ecco proprio qui sta il problema, ovvero un indebolimento del cultura nonprofit nel rigenerarsi e diffondersi per affrontare, da par suo, questioni e temi che sono urgenti nella misura in cui la loro soluzione non è più rinviabile.
Ad indebolirsi è proprio l’elemento distintivo cioè la capacità di cogliere i dati che rendono specifica una determinata situazione, ma sapendola ricollocare in un piú ampio quadro di senso. L’ho notato, ad esempio, in alcuni tentativi di porsi “dalla parte degli utenti” che francamente si sono risolti in una rappresentazione dove si faceva molta fatica a cogliere la natura e lo spessore dei bisogni (al limite della banalizzazione). L’ho rivisto, clamorosamente, in alcune posizioni espresse anche su questa piattaforma rispetto al caso dell’orsa Daniza in Trentino.
Invece di rendere la gravità dell’evento in sè ed evidenziare le sue implicazioni, si è preferito percorrere la strada della retorica che mette in ordine di importanza fatti senza alcuna correlazione tra di essi, contribuendo cosí a svuotare di significato l’evento originario. Sì perché proprio il pensiero nonprofit poteva (e per fortuna può) mettere in luce che quell’evento non solo è crudele, ma richiama significati più ampi non ultimo il fatto che, evidentemente, nonostante decenni di ambientalismo (nonprofit peraltro) il rapporto uomo natura è ancora clamorosamente fuori equilibrio anche in contesti dove l’ambiente è (o dovrebbe essere) una risorsa.
Invece di cogliere tutto questo si è preferito il gioco al massacro del “ci sono ben altri problemi” avvitandosi in una spirale senza fine e che, peraltro, è del tutto inefficace perché genera una confusione che non risolve nulla. Peccato, perché proprio in questa fase servirebbe un pensiero nonprofit forte capace di interloquire con soggetti esterni sempre più interessati al valore sociale che scaturisce non solo da beni e servizi, ma anche dal modo in cui si affrontano i problemi.
17 centesimi al giorno sono troppi?
Poco più di un euro a settimana, un caffè al bar o forse meno. 60 euro l’anno per tutti i contenuti di VITA, gli articoli online senza pubblicità, i magazine, le newsletter, i podcast, le infografiche e i libri digitali. Ma soprattutto per aiutarci a raccontare il sociale con sempre maggiore forza e incisività.