Politica

Il Pd ha creato un mostro

Come funziona l'incredibile regolamento per l'elezione del segretario

di Ettore Colombo

È la domanda che in questi giorni chiunque si occupi di politica si fa: ma come viene eletto il prossimo segretario del Partito democratico? Proviamo a spiegarvelo Beppe Grillo, lanciando la sua candidatura impossibile alla segreteria del Pd, un risultato lo ha certamente ottenuto: ha attirato l’attenzione sull’assurdo meccanismo elettoral-congressuale messo a punto dalle teste pensanti del partito. Si tratta del più astruso, assurdo e improbabile regolamento interno che mai una formazione politica abbia prodotto. Roba da brividi, come vedremo.
«Quando i miei amici del Partito democratico americano hanno letto il nostro regolamento congressuale, mi hanno chiesto se eravamo pazzi». Massimo D’Alema non poteva dirlo in modo più chiaro e netto di così, e cioè di come l’ha detto davanti al pubblico della recente Festa dell’Unità romana, davanti a centinaia di militanti attoniti.
Il regolamento del Partito democratico, dunque, «fa schifo», parola di D’Alema. Al di là di un piccolo particolare, e cioè di riuscire a sapere dov’era lui, quando quel regolamento è stato pensato, scritto e votato (furono solo 7 i voti contrari, e tra questi non c’era quello di D’Alema), resta il punto. Il Pd si presenta a un appuntamento decisivo della sua seppur breve storia, un appuntamento che potrebbe cambiarne in via definitiva i connotati, gli scopi e la natura, con un regolamento congressuale che grida vendetta davanti a Dio, agli uomini e, soprattutto, agli iscritti del Pd medesimo.

Un dottor Stranamore
«Il regolamento del Pd? È stato partorito dalla fantasia malata di un dottor Stranamore», ha sibilato a denti stretti il vecchio lupo marsicano Franco Marini, che appoggia – come tutti gli ex popolari più i veltroniani più i fassiniani più i rutelliani più gli ecodem (sic) – l’attuale segretario Dario Franceschini. Dello Statuto pensano male tutti, dentro il Pd, “a prescindere” dalle correnti, e non solo, cioè, i dalemian-lettiani-bindian-parisiani, che invece tifano per Pierluigi Bersani. Compresi i fan del terzo incomodo, il medico cattolico Ignazio Marino. Resta da capire cosa dice, questo benedetto Statuto, nato dalla fantasia (malata?) di due illustri professori di provata fede democrat (coté Veltroni), i costituzionalisti Stefano Ceccanti e Salvatore Vassallo.
Dunque, il regolamento del Pd funziona, più o meno, così. Al 23 luglio è fissato il termine ultimo per presentare le candidature, allo stato attuale quattro (Bersani, Franceschini, Marino, più il blogger Mario Adinolfi), al 21 luglio scade il termine per le iscrizioni al Pd. E qui nasce il primo guaio.
Ai partiti politici (libere associazioni di cittadini, così dice la Costituzione) di solito ci si iscrive a inizio o nel corso dell’anno, ma non è data notizia – nella lunga storia del sistema politico italiano – di iscrizioni che terminano a pochi mesi (e con l’estate di mezzo) dalle votazioni congressuali. Solitamente, non fosse che per evitare sospette iscrizioni in massa da ultima ora, ci si ferma all’anno, anno e mezzo prima, per poter votare. Invece nel Pd, no. E sorvoliamo qui, per amor dei poveri democratici che ci credono davvero, sul fatto che, ad oggi, nonostante relativa e precisa inchiesta uscita sul Sole 24 ore, non si sa ancora “quanti” siano gli iscritti al Pd (c’è chi dice 450mila circa, chi vorrebbe di più, chi spera di meno).

Tutti (o quasi) in Circolo
Ma andiamo avanti. L’ultimo giorno utile per il (mitico?) dibattito congressuale dei circoli (le, storiche, ex “sezioni”, poi diventate “unità di base”, ora “circoli”) è fissato al 30 settembre, e cioè a un mese scarso dalla convocazione della Convenzione nazionale, nome dalle reminiscenze rivoluzionarie (francesi), convocata per l’11 ottobre. La quale Convenzione nazionale (di fatto, il “congresso”, primo tempo) è composta da mille delegati eletti nelle Convenzioni provinciali. Più il segretario nazionale, più i candidati alla segreteria (e fa quattro, ad oggi), più il presidente della Commissione di garanzia (e fa cinque). 1.005, cioè, uomini e donne che votano.
Già, ma cosa? Semplicemente devono ratificare i tre candidati più votati tra gli iscritti, che abbiano raggiunto almeno il 5% dei voti e, in ogni caso, tutti quelli che abbiano ottenuto il 15% (o a livello nazionale o in almeno cinque regioni). Solo questi ultimi, dunque, sono ammessi alle primarie e qui viene il bello, il secondo tempo.

Ed ecco le primarie
Alle primarie, che si svolgeranno il 25 ottobre, sono ammessi anche i “non iscritti” (in pratica, chi vuole va ai gazebo e vota per chi gli pare). E qui si vede il segno del capolavoro, o meglio della follia. Perché sono le primarie che eleggono sia il leader che – tenetevi forte – i componenti della futura Assemblea nazionale (ex Convenzione). Il che vuol dire, tradotto, che non solo gli iscritti al partito non hanno alcun potere di scelta del loro leader, ma neppure dei membri del massimo organismo che dovrà governarli (e, di conseguenza, prendere decisioni politiche, gestire i finanziamenti, etc). Serve, alla bisogna, essere “almeno un pochino”, di sinistra? Avere la barba, gli occhiali, il golf ed altri tratti tipici dell’homo democraticus? No. Uno di Forza Italia, per dire, va ai gazebo e vota, uno di Rifondazione pure (quello dell’Udc è già in fila). Viva la democrazia? No, viva l’assurdità.
Eppure, non è finita qui. Perché se il candidato che ha riportato il maggior numero di voti non raggiunge, suo malgrado, la maggioranza assoluta, ecco che scatta il magico terzo tempo, i supplementari. Succede, infatti, che entro 14 giorni viene convocata l’Assemblea nazionale e si rivota. Come? A scrutinio segreto, è ovvio, e con tanto di ballottaggio tra i due meglio piazzati. Diciamo il 7 novembre, che poi è anche, per un accidente della storia, la data in cui si celebra (o forse è meglio dire “celebrava”?) la Rivoluzione d’ottobre, quella del 1917. Ecco, lì, a quel punto, può succedere davvero di tutto. Ad esempio, che il terzo o il quarto candidato riversi i propri voti sul secondo piazzato, facendolo vincere alla faccia dei votanti alle primarie (per dirne una, Marino che fa convergere i suoi voti su Bersani, e Franceschini, pur primo, perde). Oppure che si scateni la vera bagarre. Quella tipica dei congressoni diccì della Prima Repubblica, quando volavano scarpe, sedie e insulti. E così tutto finirebbe, con ogni probabilità, con una bella scissione. Questa sì degna di un partito di ex.

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